I popoli del Mediterraneo cominciarono ad emergere dalla barbarie quando impararono a coltivare la vite.

(Tucidide, V sec. a.C.)

 

Finora abbiamo parlato della bellissima storia della vite maritata etrusca, sopravvissuta per oltre tremila anni (si veda qui). Eppure è una forma di viticoltura già evoluta.

Come è nata?

Come  e quando gli Etruschi hanno imparato a coltivare la vite?

Nei vecchi libri di storia del vino si trova ancora che gli Etruschi hanno imparato la viticoltura e la produzione del vino dai Greci. Gli studi degli ultimi decenni hanno invece dimostrato che fu uno sviluppo proprio.

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In passato si è a lungo creduto che che la domesticazione della vite (e la produzione di vino) fosse iniziata in un singolo punto (la cosiddetta Ipotesi di Noé). L’origine ancestrale era localizzata nel Caucaso, da cui si sarebbe poi diffusa nel Medioriente e nell’area Mediterranea. Gli studi degli ultimi decenni hanno invece sempre più dimostrato che l’approccio alla vite e la vino è avvenuto in diversi luoghi in modo indipendente. Questo fatto non stupisce molto, data la grande estensione dell’areale di distribuzione naturale della vite selvatica ed il suo fisiologico incontro con le popolazioni locali. In alcune zone è avvenuto prima, in altri dopo. Nell’immagine, nei cerchi in nero si evidenziano le zone di avvio indipendente di forme di proto-viticoltura, che sono molto difficili da datare. Durante questi periodi nacque anche la trasformazione in vino. Più inquadrabili temporalmente sono le fasi successive di domesticazione, evidenziate con le aree viola e numerate in ordine cronologico, in base alle evidenze documentali. Ia-Ib: dal VI-IV millennio a.C.; IIa-IIb: V-III millennio a.C.; III (Italia centro-meridionale): III-II millennio a.C.; IV (Italia centro-settentrionale, sud della Francia e penisola iberica): II-I millennio a.C.; VI (Europa centrale): epoca romana imperiale.

Non è facile indagare queste epoche così remote, dove mancano documenti, i resti di riferimento sono di natura altamente deperibile, oltre tutto difficili da studiare in un paese come il nostro con tante stratificazioni. Un esempio classico è rappresentato dai palmenti (di cui ho parlato qui): sono stati usati per secoli, se non per millenni, e questo rende veramente difficile risalire alla loro datazione più antica.

Tuttavia negli ultimi decenni le tecniche d’indagine sono andate sempre più migliorando, integrando fra loro diverse discipline. Viene messo insieme il lavoro di archeologi, paleobotanici, biologi molecolari ed esperti viticoli. Si studiano resti di polline antico, vinaccioli, i sedimenti sugli strumenti di lavoro e nei contenitori, la genetica delle viti selvatiche ancora presenti sul territorio e quelle prossime ai siti archeologici, ecc. In Toscana, in particolare, ricordo a tal proposito i progetti Vinum, Archeovino e Senarum Vinea, ai quali faccio principale riferimento per questo post. Questi ed altri studi stanno facendo sempre più luce sulla nostra storia viti-vinicola più antica.

In moltissime zone italiane vi è stata una nascita indipendente di forme di viticoltura embrionale, anche molto antiche. Per molte di esse però il passaggio ad una viticoltura vera e propria è stato fortemente influenzato da culture più avanzate (Greci e Fenici).

Così non è stato per gli Etruschi, i primi viticoltori in Italia che tolsero la vite dai boschi e la coltivarono col sistema della vite maritata all’albero. Dalla proto-viticoltura iniziale,  svilupparono una forma di viticoltura autonoma, diventata poi parte marcante del paesaggio agricolo italiano per millenni, considerata anche una frontiera culturale.
Il contatto con i Fenici ed i Greci arricchirà poi anche la loro viticoltura e produzione vinicola, ma manterranno sempre una forte identità.

In Europa occidentale possiamo infatti tracciare le antiche frontiere culturali grazie anche al tipo di viticoltura storica del territorio. I Greci hanno plasmato la viticoltura del sud d’Italia e della Francia mediterranea. Gli Etruschi hanno influenzato quella del centro e del nord d’Italia, Roma compresa. I Romani, più tardi, l’hanno sviluppata nei territori dell’Europa centrale, portandola anche in aree che non avevano mai visto prima la vite.

Torniamo però agli Etruschi e al lungo e complesso percorso di nascita della viticoltura. Per semplificare, gli studiosi lo hanno suddiviso in fasi. Alcuni aspetti sono comuni a tutte le popolazioni che hanno intrapreso questo processo. Altri sono esclusivi degli Etruschi.

 

 

La fase della pre-domesticazione.

I nostri lontanissimi antenati, in epoca Preistorica, raccoglievano l’uva selvatica nei boschi, prendendo quello che la natura dona spontaneamente. Sono stati trovati resti di vinaccioli di vite in contesti antropici almeno dal Neolitico antico. Non è però escluso che avvenisse anche in epoche precedenti, si pensa almeno dal Paleolitico.

In questo periodo l’uomo raccoglieva il frutto selvatico (a destra, uva selvatica a Guado al Melo) ma non sembra ci siano tracce di vinificazione.

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Esistono ancora oggi le viti selvatiche?

Nei nostri boschi è ancora possibile trovarle (a sinistra, vite selvatica spontanea a Guado al Melo), infatti su di esse ha lavorato il progetto Vinum. Non è però molto facile, sono diventate rare e rischiano sempre più di sparire. Infatti crescono soprattutto lungo i torrenti ed i fossi, aree da secoli costantemente ripulite dai contadini per la salvaguardia del territorio. Fra le viti che si possono oggi trovare in un bosco ci sono però diverse situazioni: viti realmente selvatiche, viti domestiche rinselvatichite (perché lì prima magari c’era un podere abbandonato, ecc.), ibridi spontanei nati fra la vite selvatica e la domestica.

Le viti selvatiche attuali sono identiche a quelle delle origini?

Non è credibile pensarlo: in millenni di intensa viticoltura, è molto probabile che anche le viti nei boschi abbiano avuto scambi genetici con le viti domestiche.

 

La Toscana e l’alto Lazio sono le regioni italiane che hanno ancora oggi il maggior numero di esemplari di viti selvatiche, concentrati prevalentemente proprio nei boschi della Maremma affacciati sul litorale tirrenico. Il nostro territorio, l’Alta Maremma, ne rappresenta la parte più a nord (freccia gialla nella mappa sotto, da Attilio Scienza).

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La grande importanza della vite per il nostro territorio in epoca antica si riflette anche nel nome di Populonia, la città-stato Etrusca che lo dominava. Era chiamata Pupluna (o Pufluna o Fufluna) che deriva da puple = germoglio (di vite). Plinio racconta che in città vi era una statua di Giove interamente scolpita in un unico grande tronco di vite (Naturalis Historia, XIV, 9). A Giove, ricordo, fu assimilata la principale divinità etrusca, Tinia, sotto la cui tutela essi ponevano la viticoltura. Ancora oggi, i ricercatori del progetto Vinum hanno trovato in questi boschi numerose viti selvatiche. Alcune di esse sono da noi, a Guado al Melo, allevate su tutore vivo, all’Etrusca (il nostro filare n.1).
Fase della Lambruscaia.

Si pensa che la prima forma primitiva di viticoltura nell’Italia centrale sia iniziata verso la fine del secondo millennio a.C., nell’Età del Bronzo. Siamo all’inizio di quel periodo che gli studiosi hanno chiamato fase della lambruscaia, una via di transizione fra la raccolta spontanea e una forma di viticoltura vera e propria. Si tratta di una viticoltura embrionale, che ha portato alla prima para-domesticazione.

In questo periodo l’uomo da raccoglitore passivo divenne attivo: iniziò a prendersi cura delle viti selvatiche nei boschi, nei luoghi dove queste nascevano spontaneamente.

Questa viticoltura assomiglia a quella che ci racconta Omero, a proposito dei Ciclopi (tradizionalmente posti in Sicilia):

“Nulla piantano con le mani, né arano; tutto cresce per loro senza semina né aratura: e grano, e orzo, e viti che producono vino da grossi grappoli, e la pioggia di Zeus li rigonfia” (Odissea IX, 108-111).

La cura e la protezione dai predatori rendeva la disponibilità dei frutti più costante e forse anche più abbondante. Non si escludono in questa fase delle prime selezioni, nella scelta di curare le viti più produttive o più gradevoli nel gusto o le più resistenti alle avversità.

uvaNon sappiamo come gli Etruschi o, meglio le genti Villanoviane da cui si svilupperà la civiltà Etrusca, chiamassero le viti selvatiche. Sappiamo che più tardi (e per secoli) saranno indicate come “labrusca”. Si usava invece il termine “lambruscaia” per identificare gli assembramenti di viti selvatiche spontanee nei boschi. Infatti queste piante tendono a crescere a gruppi nei nostri boschi mediterranei, dove trovano più disponibilità d’acqua (ad esempio vicino ai torrenti).

La parola labrusca compare per la prima volta in un documento scritto in Virgilio (I secolo a.C.). Gli studiosi pensano però che sia molto più antica, forse di derivazione paleo-ligure. Attenzione a non confonderla con la specie Vitis labrusca L., una vitacea di origine americana, arrivata da noi nel XIX secolo. Qui parliamo sempre di Vitis vinifera L., l’unica specie europea, nella sua forma selvatica, cioè la sottospecie sylvestris.

La parola labrusca o forme derivate da essa erano ancora in uso fino a non molti anni fa per indicare la vite selvatica, fra la Toscana del sud e l’alto Lazio (e non solo). Ogni zona aveva una sua variante: labrusca / lambrusca, abrusca, brusca, ciambrusca/cianfrusca, abrostola, abrostina, fino ai più originali raverusto e zampina. In Toscana nei secoli passati si usava il termine averusco o abrostine per indicare il vino fatto ancora con uva selvatica. Queste parole riecheggiano ancora nei nomi di diverse varietà attuali, anche molto diverse geneticamente fra loro, accomunate dal fatto di ricordare nel nome la loro ancestrale origine selvatica. I più famosi sono i numerosi Lambruschi, ma ci sono anche Abrostine, Abrusco, Abrostolo, Raverusto di Capua (Asprinio dell’Aversano), ecc.

 

La prima comparsa della parola labrusca, per indicare la vite selvatica, è nella V Egloga delle Bucoliche (42-39 a.C.) di Virgilio: “Aspice, ut antrum silvestris raris sparsit labrusca racemis” “Guarda, come la vite silvestre ha coperto l’antro con rari grappoli”. Il richiamo è presente anche in una sua opera giovanile meno conosciuta, il Culex (La Zanzara), dove descrive una vite selvatica che viene mangiata dalle capre che si arrampicano sulle rocce. Qui usa però il termine che indica il frutto (labruscum), l’uva selvatica: “… pendula proiectis carpuntur et arbuta ramis, densaque virgultis avide labrusca petuntur“. Servio (IV-V sec d.C.), che scrisse commenti esplicativi all’opera di Virgilio, ci dice: “Labrusca= vitis agrestis, quae quia in terrae marginibus nascitur, labrusca dicta est a labri set extremitatibus terrae”, cioè “Labrusca= vite agreste che nasce nelle terre ai margini, è detta labrusca quella che sta ai limiti delle terre coltivate”.

La coltivazione delle lambruscaie nei boschi è un elemento primordiale caratteristico del paesaggio agricolo italiano, come ricorda anche Emilio Sereni (“Storia del paesaggio agrario italiano”, 1961), una realtà nella quale il confine fra ambiente naturale ed agrario è stato spesso molto sfumato. Infatti le lambruscaie non spariranno mai del tutto, anche dopo queste epoche remote, nonostante il passaggio a forme di viticoltura più evolute. Soprattutto nelle aree maremmane, i contadini le hanno usate ancora per secoli, fino almeno all’inizio del XIX sec. (anche se in forma marginale).

Comunque, in questo periodo è documentata una raccolta sistematica dell’uva.  Ma ci facevano veramente vino?

Sembra proprio di sì. In alcuni siti archeologici dell’Età del Bronzo iniziale (lago di Massaciuccoli), medio (San Lorenzo a Greve) e finale (Livorno-Stagno, Chiusi, Tarquinia) e altri, sono stati trovati ingenti resti di vinaccioli, alcuni con i caratteri selvatici e altri con già elementi di para-domesticazione. Quindi, una quantità rilevante di grappoli d’uva erano stati raccolti, portati nell’abitato e non consumati subito, ma riposti in un strutture usate per le riserve alimentari. I palmenti più antichi finora trovati sembrano risalire proprio all’Età del Bronzo (ho parlato delle tecniche produttive etrusche e romane qui).

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La morfologia dei semi d’uva è d’aiuto per riconoscere quelli di vite selvatica (le due righe in alto) da quelli della vite paradomestica o domestica (in basso). I primi sono più tondeggianti, i secondi più appuntiti e periformi. Qui i semi sono stati anche bruciati, per simulare lo stato in cui sono realmente trovati nei siti. Immagine da Mariano Ucchesu et al., “Predictive Method for Correct Identification of Archaeological Charred Grape Seeds: Support for Advances in Knowledge of Grape Domestication Process”,  in PLoS ONE 11(2) · February 2016

Comunque, in questo periodo, il vino prodotto era poco, abbastanza lontano dal gusto a cui siamo abituati oggi. Date le caratteristiche dell’uva selvatica, era molto probabilmente molto leggero, aspro e ricco di tannino. Ad esso erano affiancate altre bevande fermentate, come quelle ottenute dal corniolo, dal sorbo o altri frutti. Eppure sarà la bevanda ottenuta dalla fermentazione dell’uva a vincere nel tempo, per un’indubbia superiorità gustativa e conservativa su tutte le altre.

La viticoltura primordiale andò poi oltre le lambruscaie, a seguito di diversi miglioramenti produttivi e anche all’introduzione di strumenti più evoluti, come il pennato a manico lungo.

 

Fase Numana.
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Semi di vite germogliati spontaneamente nella zona di compostaggio degli “scarti verdi” nella nostra azienda.

Ad un certo punto la vite venne portata fuori dal bosco. Non si sa se questo passaggio verso una coltivazione vera e propria sia stato razionale o sia nato dall’osservazione di fatti casuali. Una delle ipotesi più accreditate in questo senso è quella detta “dell’immondezzaio” o, più elegantemente, “degli orti spontanei”. Secondo questa teoria l’uomo iniziò a veder crescere le piante utili (in questo caso la vite) vicino al proprio insediamento, nei luoghi dove abbandonava i suoi rifiuti. In questi posti gli umani antichi lasciavano resti di cibo ed anche le proprie deiezioni. I semi, buttati o presenti nelle feci, germinavano e si sviluppavano molto facilmente, grazie alla ricchezza di materiale organico ed umidità.

Dalla seconda metà dell’VIII secolo circa, in un modo o nell’altro, la vite selvatica uscì dal bosco, venne portata ai suoi margini, presso gli insediamenti umani. Iniziò la strutturazione di una vera e propria viticoltura, una nuova  fase, chiamata dagli studiosi Numana.

In questa fase nacque la vera e propria viticoltura etrusca. Nacque imitando comunque la natura, nella forma di vite maritata all’albero (di cui abbiamo già parlato qui). Il ciclo di lavoro del viticoltore divenne completo, comprendendo non solo la cura, ma anche l’impianto della vigna ed il rinnovo alla fine della vita del vigneto. Non a caso si è scelto il nome di Numa Pompilio: è l’epoca della “normalizzazione” della viticoltura che, fra l’altro, dall’Etruria venne trasmessa anche alla nascente civiltà romana.

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Per il nome di questa fase si è scelta la figura emblematica di Numa Pompilio, secondo re di Roma. È ricordato soprattutto per aver consolidato la nascente civiltà romana con l’introduzione di una serie di norme civili e religiose che, secondo la tradizione, gli furono dettate dalla ninfa Igeria. Fra queste, introdusse l’obbligo della potatura, vietando il consumo rituale del vino ottenuto da viti non potate. Il potere centrale cercò quindi di migliorare la produzione, spingendo la popolazione a superare le forme ancestrali proto-viticole. Introdusse anche il divieto di spegnere le fiamme dei roghi funebri col vino, sottolineando la preziosità della bevanda all’epoca.

La coltivazione comportò inevitabilmente una pressione selettiva sempre più intensa. Si sceglievano di impiantare e propagare le viti migliori, quelle ermafrodite (ricordo che la vite selvatica invece è prevalentemente a sessi separati), quelle più produttive o le più precoci, quelle più resistenti alle intemperie o alle malattie, ecc. Si parla in questa fase di proto-domesticazione vera e propria.

Idria (anfora per l’acqua) con scena di Dioniso e satiri che vendemmiano da viti allevate su tutore vivo (circa 530 a.C.). Rinvenuta a Caere, sembra che sia stata realizzata da artigiani greco-orientali trapiantati nella città etrusca.

In questo periodo arrivarono anche i primi vini d’importazione e le varietà di vite orientale, portate in Italia dai Greci e dagli stessi Etruschi. Queste vennero coltivate tal quali, ma anche innestate ed incrociate (più o meno volontariamente) con le varietà locali. Iniziò quell’immenso processo di intricatissimi intrecci genetici che rappresenta la domesticazione vera e propria (che è ancora in corso da allora) e che ha generato nei secoli le varietà attuali.

Nell’ambito linguistico etrusco-romano, è probabile che risalga a questa fase anche il passaggio dalla parola antica temetum (che in origine poteva indicare anche diverse bevande fermentate, non solo quella fatta con l’uva) a quella di vinum, di influenza greca. Quest’ultima diventerà la più usata nella lingua Etrusca e nel Latino, prima di giungere fino a noi.

 

 

Fase del paesaggio organizzato nelle campagne.

Dalla parte finale VII secolo avanti Cristo, iniziò una concezione agricola più simile alla nostra, che è stata chiamata fase del paesaggio organizzato nelle campagne.

S’accentuò sempre più il distacco fra la vita urbana e quella delle campagne al servizio delle città-stato. Nacquero sempre più edifici rurali circondati da terre coltivate, vere e proprie fattorie dedite alla produzione di vino, olio, cereali, ecc. Le viti maritate, poste ai margini delle terre arate, erano ormai sottoposte a potature e a cure sempre più evolute, così come migliorò ancora la produzione del vino. Le tecniche e gli strumenti di lavoro si affinarono sempre più, grazie anche al sempre maggiore scambio culturale col mondo greco e fenicio.

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Ricostruzione di edificio rurale etrusco (fine VI – inizio V sec. a.C.) a Podere Tartuchino (Semproniano, GR), da https://intarch.ac.uk/journal/issue4/perkins/2_0.html

La società Etrusca era ormai molto evoluta e la richiesta di vino divenne sempre più esigente. Si consumavano vini locali ma anche importati. Si richiedeva sempre più vino di differente qualità, con una grande circolazione di varietà di diversa derivazione. La produzione sempre più consistente portò anche a sviluppare un commercio oltremare, diretto soprattutto verso i Celti del Sud della Francia (si veda qui).

 

Fase della romanizzazione

Questa fase avvenne più o meno a partire dal III sec. a. C., con l’inizio della conquista romana dell’Etruria. In realtà l’influenza di tecniche viticole provenienti da Roma precedette anche la conquista militare vera e propria, che si completerà entro il I secolo a.C.  La viticoltura Romana era comunque la stessa, quella delle viti maritate agli alberi, anche se poi ingloberà anche quella di cultura greca e ne svilupperà di nuove. Comunque non finirà qui: la vite maritata, etrusca e romana, continuerà a vivere per millenni, arrivando fin quasi ai nostri giorni.

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Vendemmia di amorini da vite maritata, fregio della Casa dei Vettii (Pompei)

 

 

 

 

Da A. Cianci et al. “Archeologia della vite e del vino in Etruria” Ed. Ci.Vin 2007

Da slides ed appunti del prof. Attilio Scienza