Nel post precedente ho descritto come nel Settecento fosse iniziata una forte espansione dell’agricoltura italiana, con nuove impostazioni capitalistiche delle aziende agricole e le conseguenti trasformazioni del paesaggio.

Tutto questo avvenne in un momento di notevole fermento di idee e nuove visioni, di sviluppo delle scienze e di nascita di nuovi diritti, nello spirito profondamento innovatore del Secolo dei Lumi. Qualcosa sicuramente cambiò ma purtroppo non fino in fondo. L’agricoltura si espanse ma rimasero dei grossi freni che impedirono di fatto uno sviluppo completo e generale del paese. In questo post cercherò di esaminare le luci e le ombre del periodo.

 

Luci e ombre della nuova agricoltura

Nel Sette-Ottocento aumentarono in modo sempre più importante i trattati di agricoltura in tutta Europa. In questi secoli ci fu un importante sviluppo delle scienze che comportò importanti ricadute nell’ambito agrario. I testi diventavano sempre più scientifici, descrivendo le innovazioni, sia in ambito tecnico-scientifico che per quello economico-gestionale.

Le scienze si sviluppavano sempre più e influenzavano l’ambito applicativo agrario. In particolare, nel corso del Settecento la chimica fece dei progressi notevoli, staccandosi definitivamente dall’alchimia, grazie soprattutto alle scoperte di Antoine-Laurent de Lavoisier a fine secolo. Ricordo che egli descrisse per la prima volta la reazione chimica alla base della fermentazione alcolica. Fra il Sette e l’Ottocento i lavori di diversi studiosi (Jan Ingenhousz, Jean Senebier, Nicolas-Théodore de Sausurre, Robert Mayer) iniziarono a spiegare il processo della fotosintesi. Il chimico tedesco Justus von Liebig applicò queste conoscenze allo studio della nutrizione minerale delle piante. Louis Pasteur nella seconda metà dell’Ottocento dimostrò definitivamente il ruolo dei microrganismi nella fermentazione e nelle alterazioni del vino e della birra. Questi sono solo alcuni esempi.

Anche in Italia aumentò notevolmente il numero delle opere di agricoltura. Diverse avevano l’intento di far uscire l’Italia dall’arretratezza, aprendosi alle novità che giravano per l’Europa. La Toscana, la Lombardia e il Veneto divennero i principali centri di innovazione dell’agricoltura italiana. Nacquero istituzioni votate al miglioramento agrario, come ad esempio la famosa Accademia dei Georgofili di Firenze (1753).  L’Accademia fiorentina iniziò in realtà la sua vita un po’ sottotono, ma crebbe notevolmente quando ne prese il patrocinio il Granduca Pietro Leopoldo, nel 1765. L’istituzione ebbe soprattutto un ruolo determinante nel miglioramento della produzione del vino in Toscana nell’Ottocento. Ricordo anche alcune figure di spicco che lavorarono per rinnovare l’insegnamento agrario, in particolare l’agronomo milanese Gaetano Cantoni (1815-1887) e il fiorentino Cosimo Ridolfi (1794-1875), l’uno a Milano e l’altro a Pisa.

Intanto cresceva in certi territori l’idea della necessità di portare una seppur minima istruzione nelle campagne, soprattutto una formazione pratica sulle tecniche agricole. In alcuni casi se ne fecero portatori i parroci, fra i quali troviamo anche scrittori di opere per la formazione agraria, come i toscani Ignazio Malenotti e Marco Lastri. Nacquero anche numerose pubblicazioni rivolte esplicitamente al popolo, meno dotte e molto più pratiche, come lunari, almanacchi e raccolte di proverbi, che sintetizzavano in poche righe indicazioni di pratiche agricole. Nell’Ottocento nacquero anche giornali e riviste agrarie, come il Giornale Agrario Toscano (1827), che diffondevano tecniche e novità in modo più continuo ed aggiornato. Infine ricordo anche il fenomeno tutto italiano delle cattedre ambulanti di agricoltura. I professori e i tecnici andavano direttamente nei campi e nei consorzi agrari per spiegare oralmente tecniche e innovazioni agricole, mostrandole con prove pratiche o cartelli che illustravano i concetti ai contadini spesso analfabeti. Le cattedre ambulanti furono proposte al Primo Congresso degli Scienziati italiani a Pisa nel 1839 e furono sviluppate soprattutto nella seconda metà del secolo e nei primi decenni del Novecento.

Nonostante tutto questo fermento, per l’Italia questo percorso rimase a metà. Sicuramente l’agricoltura si espanse molto nel Settecento e soprattutto nell’Ottocento ma in generale crebbe poco in termini di innovazione e di qualità dei prodotti, salvo che per alcuni territori o singole realtà. Il mondo agrario italiano venne auto-limitato da una certa arretratezza e chiusura, che fecero da freno allo sviluppo qualitativo del comparto, vino compreso, salvo che per alcuni casi. La situazione era comunque molto disomogenea, con alcune aree molto avanzate e altre molto arretrate.

I limiti culturali non erano solo dei contadini. Spesso i proprietari terrieri avevano scarse conoscenze e una mentalità poco aperta ai cambiamenti. Lo stesso mondo accademico e intellettuale, salvo certe personalità molto innovative, mostrava limiti e chiusure, soprattutto scarsa apertura agli avanzamenti scientifici internazionali. Cantoni e Ridolfi sono ricordati proprio perchè si batterono tenacemente per cambiare gli studi agrari, in un ambiente molto chiuso ed arretrato.

Molti dei trattati italiani di agricoltura erano sostanzialmente opere molto erudite, incentrate sulle citazioni di Columella, magari con una profonda conoscenza della tradizione agraria ma che ignoravano gli avanzamenti delle scienze dell’epoca. Il recupero delle conoscenze antiche aveva rappresentato una forza propulsiva di crescita nel Cinquecento, come già raccontato. Ormai però avrebbero dovuto essere state acquisite e superate dagli avanzamenti successivi. Ad esempio, l’autore agrario più letto fino almeno alla metà dell’Ottocento era l’agronomo bolognese Filippo Re. Eppure i suoi testi riportano teorie sulla fisiologia delle piante e sulle loro malattie che erano già totalmente superate al suo tempo. In generale, la maggior parte delle opere di agricoltura propugnavano ancora un’agricoltura arcaica ed arretrata.

 

L’altro grosso freno allo sviluppo agricolo italiano era l’impostazione arcaica della gestione delle aziende, basata per lo più sulla mezzadria o sistemi ancora più arretrati. Questo limite era denunciato già al tempo. Dagli anni ’20 dell’Ottocento in poi, il problema fu discusso da diversi esponenti dell’Accademia dei Georgofili. Una voce molto critica fu ad esempio quella del possidente senese Leonida Landucci, che scriveva come la mezzadria fosse un sistema asfittico e stagnante:

… Così mentre il sistema di mezzeria è opportunissimo a mantenere la pace e la tranquillità interna, poco è adattato per dare alle nazioni quello slancio di volontà, per cui conseguir possono l’alto punto di civil perfezione. E questa mancanza di morale energia influisce pur anche nella scienza agraria, che per mancanza di tentativi e d’esperienze, tarda lunghissimo tempo ad introdurre quelle grandi megliorie trovate dalle nazioni più di noi industri. … Quivi dubitar si potrebbe se sia attualmente utile il sistema di mezzeria, se pur mezzeria può dirsi quella, ove il proprietario in sconto dei suoi crediti prende tutti i prodotti, ed il contadino conviene che sia contento ricevere in conto delle sue fatiche l’annuale meschino sostentamento …

Sarebbe stato necessario passare dalla mezzadria all’affitto, ma era una trasformazione difficile da realizzare in una società che aveva creato una classe contadina troppo povera per consentire il cambiamento. I Georgofili descrivono quelle che chiamano le “cinque piaghe” del sistema mezzadrile: lo sfruttamento del lavoro, l’ignoranza agronomica, l’indebitamento del contadino, la denutrizione e la precarietà. Infatti il contratto era annuale, il che rendeva incerta la sorte della famiglia colonica e non garantiva continuità nella gestione del podere. I problemi erano insiti anche nella classe dei proprietari terrieri, spesso dei semplici percettori di rendita, del tutto assenti o poco interessati alla gestione delle loro terre, spesso senza capacità imprenditoriali, privi di competenze tecniche, oltre che disinteressati alle condizioni dei propri contadini.

L’evoluzione avviata col Secolo dei Lumi non fu solo scientifica e tecnica ma investì anche l’ambito sociale. Ad esempio, il filosofo ed economista Antonio Genovesi (Castiglione 1713 – Napoli 1769) pubblicò a Napoli nel 1753 il “Discorso sopra il vero fine delle arti e delle scienze” (1753). Egli scriveva che la cultura deve avere una funzione civile, deve essere indirizzata a migliorare la vita delle persone e della società. L’istruzione deve essere diffusa ed aperta a tutti, comprese le donne e le classi più basse, come i contadini. Secondo lui è fondamentale la diffusione delle innovazioni, di pari passo al miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

Quest’opera e altre divennero il manifesto di molti intellettuali che spingevano soprattutto sui governi di Milano, Firenze e Napoli per introdurre riforme economiche e sociali. Nel campo agricolo si chiedeva la liberalizzazione dei prodotti agricoli, l’abrogazione delle esenzioni fiscali per nobili e ecclesiasti, il superamento delle tipologie di contratto agricolo più retrive, la nascita di catasti moderni, la regolamentazione degli usi civici, la privatizzazione delle terre demaniali, la confisca e alienazione delle terre ecclesiastiche, ecc. Senza scendere nel dettaglio, alcuni governi cercarono di introdurre alcune riforme, a volte furono le amministrazioni del periodo napoleonico, spesso rapidamente ridimensionate. In ogni caso, si aprirono ovunque aspettative e speranze.

 

Di contro a tante idee di apertura, ci furono anche numerosi arretramenti. Ad esempio, con l’intensificazione e capitalizzazione dell’agricoltura furono aboliti o sempre più limitati gli usi civici e la tradizione dei campi aperti. Siccome tutte le terre erano di proprietà di nobili o ecclesiasti, fin dai secoli più antichi vigevano leggi, diverse per ogni territorio, che regolavano la possibilità di uso da parte del popolo dei boschi e dei pascoli. Inoltre regolavano la possibilità di raccogliere quanto rimasto nei campi dopo le mietiture o le vendemmie dei proprietari. Queste chiusure causarono localmente scontri di classe e rivendicazioni delle popolazioni. In Toscana, ad esempio, nella provincia pisana si abolì la servitù del pascolo nel 1776, nella Maremma senese nel 1778. Nel Veneziano questi usi furono limitati dal 1765, con ulteriori chiusure dal 1786. Resistette un po’ di più l’apertura dei pascoli e dei campi nel Meridione e nelle terre del papato.

Al di là degli ideali, in realtà l’intensificazione dell’agricoltura portò in generale a un peggioramento progressivo delle condizioni dei lavoratori delle campagne. Che fossero mezzadri, fittavoli o salariati, i contadini erano costretti a rendimenti sempre maggiori in condizioni di vita molto difficili. Ad esempio, a fine Settecento scriveva Gian Francesco Pagnini, uno dei più stretti collaboratori del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo:

(il contadino) “… è esposto al maggior rigore dell’inverno, al bollore quocente dell’estate, alla pioggia, et al vento: appena coperto da ruvidi e laceri panni, nutriti parcamente (…) Lontani dalla parrocchia, dal medico, dal cerusico e dagli spedali, isolati dalla società (…).” 

Lo stesso Granduca di Toscana Pietro Leopoldo era intervenuto per cercare di migliorare le condizioni di vita delle campagne. Qui (come altrove), si era però scontrato con la resistenza dei possidenti terrieri:

Il principe non accetta la servitù secolare dei lavoratori della terra: per lui non solo è disumana, ma, socialmente dannosa e di ostacolo al progresso del paese“.

Cosimo Ridolfi, a inizio Ottocento, ci fa capire come i contadini si nutrono di scarti o di cibi di pessima qualità, nonostante che col loro lavoro producano ottimi prodotti:

“… Bagna la terra del suo sudore, la feconda coi propri stenti; vi semina grano, si nutre poi di vecce e saggina; ne spreme il vino, e beve l’acquetta; ci frange l’olio e condisce la propria zuppa con vieto prosciutto; logora la sua vita senza goderne giammai, poiché il debito che lo perseguita ad onta d’un’incredibile frugalità gli toglie il conforto dell’indipendenza.”

 

L’evoluzione dell’Ottocento

Nell’Ottocento, fino all’unificazione, continuarono i fenomeni descritti, avviati nel Settecento: le opere di bonifica, il miglioramento agrario, l’aumento dell’istruzione tecnica, …  Le società agrarie diventarono spesso luoghi di dibattito civile. L’agricoltura cresceva in continuazione e soprattutto la produzione del vino crebbe come non mai prima, diventando l’economia trainante di moltissimi territori italiani. La viticoltura si espanse notevolmente, soprattutto nei territori che erano frutto di recenti sistemazioni e bonifiche. La forte crescita demografica continuava a fornire sempre più manodopera a basso costo.

Così, nel corso del secolo, si sviluppò sempre più nel mondo intellettuale e politico una visione ottimistica in cui l’agricoltura sarebbe potuta diventare l’ambito di principale sviluppo sociale e commerciale per l’Italia, rimasta indietro in tanti altri settori. Ricordiamo le numerose figure di studiosi e innovatori che si mossero con tale scopo, alcuni già citati, come i toscani Cosimo Ridolfi e Bettino Ricasoli, Marco Minghetti in Emilia Romagna, Carlo Cattaneo in Lombardia, Camillo Cavour in Piemonte e tanti altri. Fra il 1839 e il 1847 si tennero diversi congressi agrari nazionali e incontri di scienziati ed intellettuali, i quali discutevano sulle prospettive di sviluppo dell’agricoltura. Si ragionava sui cambiamenti necessari sia nell’ambito tecnico che socio-politico ed economico, come la soppressione delle barriere doganali fra i diversi Stati italiani, la liberalizzazione e l’incremento degli scambi, la costruzione di una rete ferroviaria estesa a tutta la penisola, … Dopo l’unità si cercò di proseguire su questa strada per una crescita generale di tutta l’Italia, la quale si sarebbe dovuta inserire nel contesto europeo come esportatrice soprattutto di prodotti agricoli, alimenti e semilavorati.

Il sogno del progresso agricolo dovette scontrarsi nel corso del secolo con diverse difficoltà. C’era sempre l’importante freno dell’arretratezza della mentalità che ho descritto in precedenza, che si rifletteva in un’agricoltura poco innovativa e in prodotti di qualità non eccelsa. Ci furono poi diversi momenti di crisi contingenti, come quelle causate dall’arrivo di malattie delle piante coltivate, che imperversarono per via dell’aumento degli scambi internazionali. L’Ottocento è ricordato in particolare per le crisi del settore del vino causate dalle malattie americane, che vedremo poi. Fra gli anni ’60 e ’80 arrivò anche una forte crisi economica dovuta alla liberalizzazione internazionale degli scambi. La conseguenza fu una notevole caduta dei prezzi per via dell’arrivo di prodotti esteri a basso costo, come i cereali americani o le sete della Cina. Tutte queste difficoltà ebbero impatti devastanti soprattutto sulla popolazione contadina che era già in condizioni precarie, dando il via alle grandi ondate migratorie. L’agricoltura italiana in parte si riprese verso la fine del secolo ed i primi del Novecento, fino alla Prima Guerra Mondiale. L’emigrazione però non si fermò perché ormai certi equilibri si erano alterati in modo irreparabile.

Dagli anni ’80 comunque si incentivarono nuove bonifiche, si ampliò l’istruzione agraria, si cercò di sostenere il credito agrario, si rafforzò l’associazionismo, nacquero cooperative di lavoratori … Tutte queste spinte funzionarono fra l’Ottocento e il primo Novecento nel dare un grosso impulso all’agricoltura settentrionale in tutti i comparti, per alcuni settori in certe zone del centro (come per il vino). Si accentuò sempre più  però il divario con l’agricoltura meridionale e di altre aree centrali rimaste più arretrate. Numerosi intellettuali e politici (come Pasquale Villari, Leopoldo Fianchetti, Gaetano Salvemini e altri) denunciarono questo divario, sottolineando sempre più il legame fra la questione agraria e quella meridionale, come problemi cruciali perché ci fosse una reale evoluzione economica e civile dell’Italia. L’inchiesta parlamentare del 1906 promossa da Giolitti mise in luce un’agricoltura meridionale ancora troppo in difficoltà. Se ne riconoscono dei picchi, come la produzione di olio, vino e frutta destinati ai mercati internazionali. Tuttavia permanevano numerosi problemi, come il degrado del territorio, ancora per la maggior parte abbandonato alla pastorizia o a una cerealicoltura povera, oltre che una piccola proprietà che non riusciva a decollare per il peso dei debiti e delle tasse.

 

La situazione contadina dell’Ottocento

Il Settecento e soprattutto l’Ottocento videro un incremento demografico molto intenso, con una massa sempre più grande di lavoratori nelle campagne. Carlo Cattaneo nel 1851 descrive la crescita sempre maggiore della figura del lavoratore a giornata, senza contratto, sfruttata e altamente precaria. Nel 1881 questa classe rappresentava il 30% dei lavoratori agricoli, impiegata a fine secolo anche nella realizzazione delle infrastrutture, come strade e ferrovie. Al tempo erano chiamati spesso “giornalieri di piazza“, come li descrivono Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti nelle loro inchieste sulle campagne siciliane del 1876:

La mattina, prima dell’alba, si vede riunita in una piazza di ogni città una folla di uomini e ragazzi, ciascuno munito di zappa: è quello il mercato del lavoro, e son quelli tutti lavoranti, che aspettano chi venga a locare le loro braccia per la giornata o per la settimana: i salari variano da luogo a luogo, le stagioni e i generi di lavori. …

Per i lavoratori a giornata la paga andava al ribasso, contando sulla fame di tanti che accettavano retribuzioni sempre più basse pur di avere il lavoro. Inoltre potevano passare lunghi periodi senza lavoro, nei quali dovevano arrangiarsi a sopravvivere. Molti di essi si spostavano per lavori stagionali nelle nuove terre bonificate, come la Maremma, l’Agro Pontino, il Tavoliere delle Puglie, nelle isole, ecc., passando lunghi momenti lontani dalle famiglie. Erano territori dove la malaria era endemica e spesso la malattia si manifestava nel viaggio di ritorno, con esiti anche fatali.

A fine Ottocento non era ancora cambiato quasi nulla, come Sidney Sonnino denunciava in un discorso tenuto alla Camera il 7 luglio 1880:

Noi abbiamo, o signori, fin qui troppo dimenticata la condizione della classe dei contadini nel nostro paese. Essa muove a pietà: essa in una metà del Regno è peggiore che in qualunque altra regione d’Europa …  Mal pagato, mal alloggiato, mal nutrito, schiacciato da un lavoro soverchio che egli esercita nelle condizioni più insalubri, per il contadino di una gran parte d’Italia ogni consiglio di risparmio è una ironia; ogni dichiarazione di legge che lo dichiari libero e uguale a ogni altro cittadino, un amaro sarcasmo. A lui che nulla sa di qual che sta al di là del suo comune, il nome d’Italia suona leva, suona imposte, suona prepotenza delle classi agiate … I contadini rappresentano più del 60% della popolazione, e l’Italia non sarà mai così forte, non sarà mai così sicura del proprio avvenire finché il contadino nostro non si sentirà veramente italiano”.

“Vanga e latte” di Teofilo Patini (1883-1884). Patini è un pittore verista, che vuole raccontare la dura realtà dei contadini della sua terra, l’Abruzzo. Qui illustra un momento di pausa della donna dal lavoro per allattare il figlioletto, seduta a terra fra un piatto con i resti di un misero pasto, con poveri oggetti come appoggio e riparo. Intanto l’uomo, di spalle, continua il suo duro lavoro, sullo sfondo di una luce livida e fredda.

La condizioni di vita nelle campagne erano molto dure, pur con differenze regionali. Poteva essere un poco migliore la condizione del contadino della pianura Padana o delle aree più sviluppate della Toscana. Invece erano decisamente peggiori nel Meridione o nelle zone meno avvantaggiate del centro e del nord, come le aree di montagna.

In generale, i contadini di allora vivevano in case molto misere, se non in capanne, in coabitazione con gli animali, con un’alimentazione povera e di cattiva qualità. L’assistenza medica era spesso assente o scarsa. Le carenti condizioni igieniche e la sottoalimentazione cronica favorivano numerose malattie e di fatto la vita media era molto breve. Nelle condizioni difficili soprattutto del sud proliferavano il tifo, il colera e la tubercolosi. Anche le gastroenteriti potevano risultare fatali. Non mancavano neppure nelle terre relativamente più ricche del nord malattie dovute alla cattiva alimentazione, come la pellagra, lo scorbuto, il gozzo, …

Una grave malattia che ha imperversato per secoli nelle campagne del Nord Italia è stata la pellagra, sparita del tutto solo nel secondo dopoguerra, quando l’alimentazione nelle campagne fu definitivamente più varia e ricca di alimenti freschi. Causava un’intensa dermatite su varie parti del corpo, nausea e diarrea, debolezza, disturbi psichici fino alla demenza, infine anche la morte. Colpiva le popolazioni che si nutrivano principalmente di mais, che si era diffuso tantissimo nel nord e certe parti del centro Italia. Fra il Seicento e il Settecento aveva soppiantato altri cereali come base dell’alimentazione. A lungo si pensò che la pellagra fosse causata dalla cattiva conservazione del prodotto ma ad inizio Novecento il medico statunitense Joseph Goldberger provò che la malattia era causata da diete carenti in prodotti freschi, che il mais non bastava a compensare. Più tardi fu identificata nella mancanza di vitamina B3 (niacina). Curiosamente questa malattia non colpiva i nativi americani, Si scoprì che era per via del loro processo tradizionale di lavorazione del mais che comportava un passaggio in una soluzione fortemente alcalina. Infatti, per renderlo più facilmente lavorabile, era bollito in acqua e calce, lavato e poi triturato. Il processo è stato chiamato nixtamalizzazione, da nixtamal, il nome tradizionale del mais dopo la bollitura. Questo trattamento agisce su diversi componenti del chicco ed è anche in grado di rendere disponibile un precursore della vitamina B3.

Se a fine secolo iniziò a nascere una certa sensibilità sociale verso la situazione degli operai, più che altro perché si temevano i disordini nelle città, questo fenomeno non avvenne quasi mai per le campagne. I contadini diventeranno parte attiva della politica italiana solo dopo la prima guerra mondiale.

Allora non c’era ancora questa coscienza e la condizione contadina non smosse mai più di tanto la sensibilità della società del tempo. A volte c’era pietismo o paternalismo, ma spesso i contadini erano disprezzati fino al razzismo, considerati responsabili della propria condizione, vittime della loro ignoranza e miseria. Il pregiudizio sociale venne avvalorato da certi studi pseudo-scientifici di derivazione lombrosiana. Ad esempio, Alfredo Niceforo pubblicò nel 1907 un testo dal titolo “Ricerche sui contadini”, in cui riportava misure dei crani di contadini del Sannio. Egli descrive i caratteri di inferiorità sia fisica che psichica delle classi povere, che secondo lui nasce da una mescolanza fra contesto socio-economico e patrimonio genetico ereditario. Questi studi abietti si concentrarono particolarmente sulla popolazione dell’Italia Meridionale, avvalorando in certi ambiti una visione profondamente razzista.

“Bestie da soma” di Teofilo Patini (1886): qui ritrae delle donne intente a portare carichi di legna, stremate dalla fatica, in particolare quella più anziana sulla sinistra e la donna incinta, in piedi.

Nella letteratura dell’Ottocento i riferimenti più importanti al mondo contadino si trovano nei Promessi Sposi del Manzoni e nel Verismo di Giovanni Verga, anche se espressi in modo molto diverso. La visione del Manzoni degli “umili” è genuinamente ispirata da sentimenti di pietas, ma il punto di vista di questo nobile è religioso e paternalista. Egli denuncia le ingiustizie ataviche che gli umili subiscono dai potenti. Per lui la soluzione non può trovarsi però nella rivolta o nella giustizia terrena. Gli umili devono affidarsi con fede alla Provvidenza divina e così verranno ricompensati. Fra le tante citazioni, Padre Cristoforo dice a Renzo nel capitolo VII:

“Non c’è nulla da sperare dall’uomo; tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione”.

Giovanni Verga invece affronta con spirito “verista” la dura vita delle campagne siciliane nelle raccolte di racconti  “Vita dei Campi” (1880) e “Novelle Rusticane” (1883) e in altri romanzi. Anche il suo intento non è di riscatto sociale. La rappresentazione delle classi più umili gli permette di mostrare tutti gli aspetti della sua visione pessimista della natura umana, fatta di avidità e sopraffazione, fino a quelli più crudi e violenti. I suoi protagonisti sono spesso persone che estremizzano i conflitti perchè hanno caratteristiche che li portano a essere, o diventare, diversi dal loro contesto sociale. Ad esempio, pensiamo alla Lupa, diversa perché bella e troppo libera o a Rosso Malpelo, orfano di padre e che soffre il pregiudizio dei suoi capelli rossi.

Mazzarò nella celebre novella “La roba“, conquista averi su averi ma non trova comunque soddisfazione, chiuso nella sua mancanza di umanità, guidato solo da un’avidità atavica e smisurata. Infine muore nell’ansia di perdere la sua “roba”. Lo scrittore ci fa capire dove nasce tutta questa durezza, rappresentandoci con poche immagini le condizioni di vita atroci dei contadini del tempo:

“Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva quattordici ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento”

Cercare il cambiamento è comunque un atto che non porta a nulla di buono. Gesualdo Motta, del romanzo “Mastro don Gesualdo” (1889) è un uomo di grande acume, al punto di passare da muratore a possidente, ma diventa una sorta di “fuori casta” inviso a tutti. Viene disprezzato dalla moglie Bianca e dalla sua nobile famiglia, oltre che dalla stessa figlia Isabella. Questi nobili, dipinti come ottusi e inetti, in decadenza per la loro insipienza, sono stati obbligati ad imparentarsi con lui per i debiti e per evitare lo scandalo di una relazione di Bianca. Viene però odiato, per invidia, anche dalla sua famiglia di origine e dagli altri paesani. Alla fine, circondato solo da sciacalli, muore solo e con la consapevolezza disperante di aver vissuto una vita senza affetti e senza senso.

Nella novella “Libertà” il protagonista che tenta un impossibile cambiamento è la collettività del popolo di un piccolo paese. Il racconto è ispirato ad una rivolta accaduta storicamente a Bronte fra il 2 e il 5 agosto 1860. La stratificazione di sofferenze antiche fa scoppiare una rivolta che si sfoga con una violenza bestiale:

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!». …

“E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! — Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! — …”

Don Antonio (il prete) sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – … – Non mi ammazzate, che sono in peccato mortale! – La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati.

Anche in questa novella assistiamo a un’umanità già vinta in partenza. La ribellione viene sopressa dall’arrivo dei Garibaldini e poi tutto torna alla normalità, con una giustizia implacabile che viene somministrata in modo lento e quasi annoiato. La classe contadina era comunque destinata al fallimento, incapace di autodeterminarsi dopo che ha eliminato i notabili e il parroco del paese, figure delle quali avrebbe ora bisogno per spartirsi gli averi conquistati e per capire cosa fare. La violenza rimane fine a se stessa, senza riscatto. Dopo la lotta subentra solo lo smarrimento. Per Verga nulla può cambiare, sia col vecchio che col nuovo potere. Rimangono solo i contadini delusi, destinati a spegnersi lentamente in carcere, a chiedersi dove sia questa “libertà”.

“Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace.” …

“Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…”

Immagine dal film “Bronte” di Florestano Vancini (1972)

 

… continua …