Sappiamo già tutti che gli Etruschi furono grandi navigatori e commercianti ma forse è meno noto che commerciarono ampiamente anche il loro vino, una sorta di primordiale export dalla Toscana. Col prodotto ne diffusero anche la cultura, esportando gli oggetti del corredo del simposio nell’Europa occidentale che ancora non lo conosceva.

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La storia del commercio etrusco iniziò circa nel IX sec. a.C., ma s’intensificò soprattutto a partire dall’VIII sec., interrompendosi solo con la conquista romana (II-I sec. a.C.). Situati in una regione cardine per i traffici commerciali tra Oriente ed Occidente, gli Etruschi seppero sfruttare al meglio questa posizione di favore. I mercanti etruschi divennero noti in tutto il Mediterraneo ed il mar Tirreno, controllato dalla flotta, divenne quasi uno spazio esclusivo. Frecce marroni: le vie del commercio e la grande diffusione dei prodotti Etruschi.

Il commercio del vino fu molto intenso fra il VII sec. e la prima metà del V sec. a.C. Da quel periodo infatti, grazie al notevolmente miglioramento delle tecniche viti-vinicole, vi fu un forte incremento produttivo che creò un’eccedenza rispetto al consumo interno, spingendo alla commercializzazione.

Fu un commercio vasto, documentato dal ritrovamento di anfore vinarie etrusche in molte regioni: nel Lazio, in Campania, nelle colonie greche della Sicilia orientale, in Calabria, in Sardegna, in Corsica, nella Francia del sud e nella penisola iberica, sia sulle coste mediterranee che quelle dell’Atlantico meridionale. Vi fu anche un commercio minore via terra, sia interno che verso i territori dell’Europa centrale transalpina, dove sono stati trovati numerosi oggetti del simposio etrusco.

Il mercato più importante di tutti era quello degli insediamenti celto-liguri del Sud della Francia, come Saint-Blaise in Provenza, Lattes e La Monedière in Linguadoca, penetrando per alcune decine di Km all’interno lungo le vie fluviali.  Nei resti archeologici di più di 70 siti della regione sono stati trovati grandi quantità di vasi in bucchero ed anfore da vino etrusche.

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L’area tratteggiata in grigio indica la diffusione delle anfore vinarie etrusche nella Gallia Meridionale. Le frecce indicano le principali rotte delle navi, mentre i numeri indicano i relitti ritrovati (da Cristofani, Gli Etruschi una nuova immagine, ed. Giunti 2000).

Possiamo anche seguire le rotte di questi viaggi grazie ai resti dei naufragi rinvenuti lungo l’antico percorso, a Cap d’Antibes, Bon Porté, Point du Dattier e altre località. Dall’Etruria, i mercanti seguivano le isole dell’arcipelago toscano e passavano dalla Corsica. Sui fondali marini sono state trovate navi etrusche con interi carichi di anfore vinarie e vasellame pregiato da mensa.

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Questo allestimento del museo di Populonia ricostruisce l’aspetto dei ritrovamenti dei resti dei naufragi sul fondale marino.
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Esempio di carico di nave etrusca, affondata a Cap-d’Antibes nel secondo quarto del VI sec. a.C.: (a) anfore vinarie, (b) buccheri, (c) ceramica etrusco-corinzia, (d) olle e tazze non dipinte usate dai marinai. (sempre da Cristofani, ed. Giunti)

All’epoca nel sud della Francia il vino non era ancora conosciuto e, in cambio, gli Etruschi si approvvigionavano di merci varie, probabilmente pelli, bestiame, schiavi, soprattutto di stagno che, lungo la via del Rodano, proveniva dalla Cornovaglia (ricordo che lo stagno era fondamentale per la produzione del bronzo, in lega col rame).

Questo commercio di vino venne meno dal VI sec. a.C. per via della colonizzazione dei Focei (provenienti da Focea, città greca della Ionia, nell’attuale Turchia). Questi pian piano soppiantarono gli Etruschi, imponendo un vero e proprio dominio territoriale, soprattutto verso la fine del secolo.

Da quel momento i mercati della Francia Meridionale iniziarono ad usufruire principalmente della produzione vinicola di Marsiglia (allora Massalia), che era stata fondata dai Focei intorno al 600 a.C.  Il commercio etrusco del vino diminuì sensibilmente e si focalizzò principalmente sui prodotti dell’artigianato e dei beni di lusso.

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Anfora vinaria etrusca rinvenuta in mare nei pressi di Populonia, dal museo del Territorio di Piombino (per gentile concessione)
Il vino era trasportato in anfore di terracotta, usate anche per la conservazione, antenate delle più note anfore romane. L’anfora etrusca sembra sia nata su modelli fenici e comparve con l’inizio della commercializzazione del prodotto. All’inizio presentavano iscrizioni a vernice rossa, come ad evocare la pratica del dono. Tuttavia poi si standardizzano, diventano tutte identiche, senza decorazione, una vera e propria produzione in serie.  All’interno erano spalmate di resina e chiuse con tappi di sughero sigillati con pece.  La forma era diversa a seconda del luogo di produzione ed evolvette nel tempo verso forme sempre più allungate, per facilitare lo stivaggio nelle navi.
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Diverse tipologie di anfore vinarie etrusche (da Cristofani, ed. Giunti)
Il disegno ricostruisce la scena di carico di una nave nel porto di Populonia, con anfore di vino (dal museo del Territorio di Piombino)

Nelle stive le anfore erano impilate in file parallele, le une sopra le altre, sfruttando gli spazi tra ansa e ansa della fila sottostante per infilarvi il puntale di quella soprastante.  I carichi erano bilanciati in modo da evitare il disequilibrio del battello.  Gli interstizi fra le anfore erano riempiti con ramaglie di ginepro o erica, giunchi o fascine, per evitare rotture e movimenti durante il trasporto.

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Ricostruzione grafica della stiva di una nave antica
Gli Etruschi rapiscono Dioniso

Dal VI sec. a.C. il mercante etrusco apparve raffigurato nella letteratura greca come un pirata, mentre il fenicio aveva il ruolo del commerciante scaltro. Quello greco, ovviamente, trionfava progressivamente sugli ostacoli, imponendosi sugli altri.  Tale iconografia, ovviamente molto di parte, aveva comunque un fondo storico: i viaggi commerciali dell’epoca non erano del tutto estranei ad episodi di razzie. Tuttavia si pensa che, più che atti pirateschi, si trattasse di una sorta di guerra corsara.

La figura dell’etrusco-mercante, ma soprattutto dell’etrusco-corsaro, provocò la diffusione di un mito che racconta il rapimento di Dioniso da parte dei pirati etruschi, rappresentato sui vasi greci a partire dal VI sec. a.C. Questo mito compare per la prima volta nel VII inno attribuito ad Omero, probabilmente riportando narrazioni orali arcaiche.

Il mito racconta che gli Etruschi trovarono su un’isola un bel giovinetto addormentato, dai riccioli neri ed un ricco mantello color porpora.

… dei pirati Tirreni arrivarono sopra una solida nave, avanzando veloci sul mare violaceo: un triste destino li guidava…

Pensando fosse il figlio di un re, lo presero per chiederne il riscatto. Dioniso, svegliatosi legato sulla nave, si trasformò in orso e poi in leone, mentre tralci di vite s’avvolgevano all’albero maestro. I pirati, atterriti, si gettarono in mare e furono trasformati in delfini. Il Dio risparmiò solo il timoniere, che si era opposto fin dall’inizio al tentativo di legarlo, in quanto aveva intuito la natura divina del ragazzo.

Exekias, Kylix con il mito di Dioniso e dei pirati tirreni trasformati in delfini (530 a.C. circa; ceramica a figure nere, diametro 30,5 cm, altezza 13,6 cm; Monac
kylix di origine attica (Grecia) ritrovata in Etruria, a Vulci (530 a.C.). Rappresenta la scena conclusiva del mito: Dioniso è sulla nave, con la vite che è cresciuta intorno all’albero e i pirati-delfini che nuotano intorno.

Sembra che gli Etruschi apprezzassero questo mito, infatti loro stessi lo rappresentarono, come nell’idria di Toledo.

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Hydria etrusca, detta di Toledo (perchè conservata a Toledo, in Ohio, USA), del Pittore del Vaticano 238, fine del VI-inizi del V sec. a.C.

A parte Omero, questo mito è ricordato di rado nella letteratura greca, se non in epoche successive, dove compare con diverse aggiunte o varianti. In epoca Ellenistica Pindaro sostiene che il rapimento è stato “commissionato” da Era, con Sileno ed i Satiri che partono alla sua ricerca. Torna ancora più frequente nella letteratura greca di epoca romana , con Apollodoro, Nonno di Panopoli ed altri autori.

A Roma il mito è citato da Ovidio nelle Metamorfosi, secondo il quale il rapimento sarebbe avvenuto sull’isola di Chio. Quando il giovane si risveglia, chiede di essere portato a Nasso. I pirati fingono di assecondarlo e, quando Dioniso se ne accorge, iniziano i prodigi. L’edera e la vite si avvolgono all’albero della nave, compaiono le diverse fiere. I pirati che si gettano in mare sono descritti in diverse fasi della metamorfosi in delfini. Poi emergono ed intrecciano una danza intorno alla nave. Si salva anche qui solo il timoniere, che giunge a Delo e diventa seguace del culto del Dio.

Nell’Edipo di Seneca i prodigi sono ancora diversi: il mare diventa un prato, con anche alberi ed uccelli. Igino racconta che i compagni di Dioniso (non era solo in questo caso) iniziano a cantare una canzone meravigliosa che affascina i pirati, i quali iniziano a danzare e nell’impeto cascano in mare. Luciano riprende questo passo, dicendo che Dionisio usa la danza per sottomettere i Tirreni, sottolineando l’importanza di essa nel culto del Dio.

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Mosaico romano di Dougga (Tunisia) (253 – 268 d.C.)

Gli studiosi pensano che originariamente il mito si ricollegasse ai riti d’iniziazione ai misteri dionisiaci, come insegnamento oppure come dimostrazione della punizione per chi non volesse riconoscere il Dio. Poi divenne una sorta di propaganda greca contro gli atti di pirateria etruschi.

In epoca ellenistica e romana prese però anche una connotazione escatologica, connessa al culto misterico di Dioniso, Dio della trasformazione e del rinnovamento, che può portare l’uomo alla salvezza. Il rapporto fra Dioniso (il vino) e il mare sono elementi e metafore del passaggio fra la vita e la morte, comunque molto presenti nella cultura greca e poi anche in quella etrusca. Il viaggio per mare rappresentava metaforicamente il viaggio verso l’Aldilà. Gli Etruschi credevano che fossero proprio i delfini ad accompagnare i defunti verso l’Isola dei Beati. La figura del delfino è proposta infatti nell’arte etrusca con significato simbolico-rituale legato alla morte, come in diverse tombe, ma anche di buon auspicio. Sicuramente questi animali acquatici era ben famigliari a questo popolo di navigatori.

530 a.C.; affresco; Tarquinia, Tomba della Caccia e della Pesca
530 a.C.; affresco etrusco di Tarquinia, Tomba della Caccia e della Pesca

Anche nell’arte romana rimarrà questo legame, con la rappresentazione del mito nei monumenti funerari. Viene però anche proposto in mosaici di abitazioni private.

Mi piace però pensare a questo mito in modo anche diverso: gli Etruschi rapiscono il Dio del vino, Dioniso, o meglio l’anima stessa del vino, e la portano in Occidente, in Italia, che diventerà sempre più la terra del vino per eccellenza.

Ora proseguiamo facendo un passo indietro: vediamo nel dettaglio come gli Etruschi passarono dalla raccolta dell’uva selvatica alla viticoltura vera e propria (qui)

Inno di Omero

Canterò Dionisio, il figlio dell’illustre

Semele. Apparve su un promontorio, lungo la riva

del mare infecondo, con l’aspetto di un giovane

nel fiore dell’età: aveva bei capelli scuri

e fluenti, e un manto purpureo gli copriva le forti

spalle. Subito dei pirati tirreni arrivarono

sopra una solida nave, avanzando veloci sul mare

Violaceo: un triste destino li guidava. Come lo videro,

si scambiarono un cenno, saltarono a terra, lo afferrarono

e subito le deposero sulla loro nave, pieni di gioia.

Pensavano infatti che fosse il figlio di sovrani

potenti, e decisero di legarlo con nodi crudeli.

Ma i nodi non lo stringevano, e i lacci caddero lontani

Dalle mani e dai piedi. Il dio rimaneva seduto, e sorrideva

con gli occhi scuri; il timoniere capì,

e subito parlò in questo modo ai compagni:

“Amici, chi è questo dio potente che avete preso

E tentate di legare? La nave ben fatta non ne regge il peso:

costui o è Zeus o Apollo dall’arco d’argento

o Poseidone, perché certo non assomiglia agli uomini

mortali, ma agli dei che abitano le case dell’Olimpo.

Presto, lasciamolo subito libero sulla terra

nera: non mettetegli le mani addosso, perché se si adira

può scatenare venti crudeli e una tempesta violenta”.

Così disse, ma il capo lo rimproverò con dure parole:

“Disgraziato, pensa al vento, e aiutami a tendere la vela:

tu tira i cavi, a costui provvederanno gli uomini.

Credo proprio che ce lo porteremo in Egitto o a Cipro

o fra gli Iperborei, o ancora più lontano; ma alla fine

ci dirà dove sono i suoi amici e le sue ricchezze

e i suoi parenti, perché ce l’ha mandato un dio”.

Così dicendo drizzava l’albero e la vela della nave.

Il vento gonfiò il centro della vela, e i marinai tendevano

i cavi. Ma presto si manifestarono ad essi dei prodigi:

prima sulla nera nave veloce si sentì un gorgoglio di vino

fragrante, dolce da bere, e ne emanava un profumo soave:

tutti i marinai furono presi da stupore, a questa vista.

Poi dall’alto della vela germogliò una vite,

da entrambi i lati, e penzolavano giù molti

grappoli; attorno all’albero s’avvolgeva un’edera scura,

densa di fiori, e vi crescevano amabili frutti;

tutti gli scalmi portavano ghirlande. Allora, vedendo ciò,

essi dissero al timoniere di spingere di nuovo la nave

a terra; ma il dio, a prua della nave, si trasformò

in leone terribile, dal ruggito altissimo, e al centro

creò l’immagine poderosa di un orso dal collo villoso.

L’orso si erse minaccioso, e il leone da prua

lanciava sguardi feroci; essi si rifugiarono a poppa,

stringendosi al timoniere che aveva mostrato saggezza,

e si fermarono terrorizzati. Il dio con un balzo improvviso

ghermì il capo, e gli altri a questa vista tutti insieme

si gettarono fuori nel mare lucente, per evitare la morte,

e diventarono delfini. Del timoniere però il dio ebbe pietà,

lo trattenne e gli concesse una sorte felice, dicendogli:

“Coraggio, buon vecchio, caro al mio cuore:

io sono Dioniso, il dio fremente; mi generò Semele,

la figlia di Cadmo, unendosi in amore a Zeus”.

Salve figlio di Semele dal bel volto, nessuno

che si dimentichi di te può comporre un bel canto.

(VII Inno di Omero)

Il mito di Dioniso e i Pirati Tirreni in epoca romana, Lucia Romizzi Latomus T. 62, Fasc. 2 (AVRIL-JUIN 2003), pp. 352-361 (12 pages) Published by: Société d’Études Latines de Bruxelles

Cristofani, Etruschi, ed. Giunti.

Gli etruschi, abili commercianti e navigatori. Gli scambi, i prodotti che compravano e vendevano, gli empori di Finestre sull’Arte, scritto il 24/06/2018