“… E perché meno ammiri la parola / Guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’omor che da la vite cola.” (Dante, Divina Commedia, Canto XXV del Purgatorio)

Se si deve parlare di vino e Medioevo, non è possibile non citare Dante, che ci regala una bellissima definizione: il vino nasce dalla fusione perfetta fra il calore del sole e gli umori terrestri della vite. Da perfetto uomo medievale, non è però proprio di vino che vuole parlare. La metafora gli serve per fare ragionamenti di stampo religioso. Dante sta spiegando il momento in cui Dio insuffla nel feto l’anima intellettiva, quella che caratterizza l’essere umano da tutti gli altri esseri viventi. Con questo atto, l’anima intellettiva riassorbe in sé le due anime naturali, presenti fin dalla fecondazione: quella vegetativa, in comune con le piante, e quella sensitiva, propria degli animali. Nasce quindi un’intima unione, al punto che non si può più distinguere un’anima dall’altra, proprio come descritto per il vino.

Tutto questo ci introduce perfettamente nella mentalità dell’uomo medievale, per il quale il vino è vino, da bere, da commercializzare, ma diventa anche il sangue del Cristo, simbolo religioso per eccellenza, denso di significati e di sfaccettature. Il vino, come abuso o vizio, è osteggiato dalla Chiesa che, nello stesso tempo, lo rende protagonista del suo rito religioso e contribuisce a diffonderne la produzione come non mai.

Il Medioevo italiano è stato un periodo di grandissimo splendore per la produzione del vino, soprattutto quello indicato come Basso, cioè l’epoca dei Comuni. Fu prodotto e consumato in grandissima quantità, come mai più dopo di allora. L’Italia fu anche il centro dei commerci dei vini di tutto il Mediterraneo e verso l’Europa continentale.

Dall’antichità al Medioevo: non solo dall’anfora al legno

Nei libri di storia del vino spesso si semplifica il passaggio dalla produzione antica a quella medievale focalizzando l’attenzione solo sul cambio dei contenitori. Come noto, in antichità si usavano per la vinificazione prevalentemente anfore in terracotta (accuratamente impermeabilizzate con cera, resine, gesso e pece), mentre nel Medioevo dominava il legno. Secondo lo storico agronomo Saltini, questa dicotomia era forse così netta per il resto d’Europa, ma probabilmente non per l’Italia. Ad ogni modo, la trasformazione decisamente più importante non fu quella ma che furono perse le notevoli tecniche produttive raggiunte in epoca romana, sia in ambito viticolo che enologico. Come ho cercato di raccontarvi nei miei precedenti post, in epoca romana, soprattutto dalla tarda Repubblica, si erano raggiunte tecniche produttive molto avanzate che consentivano di produrre una grandissima varietà di vini. Si andava da quelli più a buon mercato a quelli più raffinati, vini fermi e frizzanti, fino ai veri e propri vini di territorio (come diremmo oggi). I vini non erano più bevuti per forza aromatizzati per coprirne i difetti, come in epoca antichissima, ma erano spesso bevuti puri. Inoltre, erano conservabili. Si andava dalla produzione di vini giovani a quelli capaci di lunghissimi invecchiamenti. Nel Medioevo si tornò ad una produzione molto più semplice di vini primordiali. Anche nel Basso Medioevo si producevano vini in genere incapaci di superare i sei mesi di vita (come scrive Saltini). Ci vorranno ancora diversi secoli prima che certe tecniche tornino ad essere riscoperte e reintrodotte nella produzione vinicola.

Nell’epoca Medievale (e anche dopo) i vini erano consumati assolutamente entro l’anno. In realtà, già dopo alcuni mesi dalla produzione si alteravano nel gusto, costringendo ad attendere con ansia i prodotti della successiva vendemmia. Vedremo come, per secoli, i soli vini che riuscivano a durare un po’ più a lungo e quindi ad essere trasportati erano solo alcuni vini mediterranei, grazie al tenore alcolico. I vini prodotti nei climi continentali, soprattutto quelli più nordici, duravano molto poco, dato il basso accumulo di zucchero naturale nell’uva e, quindi, la bassa gradazione alcolica.

In una lettera scritta dal notaio fiorentino Lapo Mazzei (1350-1412) a Marco Datini, si legge che il vino, passata la metà di luglio, aveva il sapore del “guaime”, un’erba usata come foraggio per il bestiame. Per gli statuti di diversi comuni dell’Italia centrale e settentrionale, la data di inizio della vendemmia era indicata per legge, perché non nascessero speculazioni. Si voleva evitare che si anticipasse sempre più la raccolta, per vendere il vino nuovo prima di tutti gli altri. Nel Basso Medioevo forse qualche miglioramento tecnico era avvenuto se lo stesso Mazzei testimonia in altri scritti di alcune Ribolle vecchie di 2-3 anni, ma sappiamo che erano casi rari.

Il vino era molto diverso da quello che degustiamo oggi. I frequenti difetti erano coperti al momento del consumo, come in epoca greca ed etrusca, con l’aggiunta di spezie, erbe ed aromi vari, a volte anche dolcificato. Dovremo attendere ancora a lungo per avere un prodotto senza pecche. Secondo lo storico francese André Tchernia, la fine del “medioevo del vino”, inteso come prodotto dal gusto difficile in quanto più o meno ricco di difetti (soprattutto un frequente spunto acetico, ossidazioni, alterazioni microbiologiche di varia natura, ecc.) avvenne ben dopo l’epoca omonima. Anche i migliori avevano di base gusti per noi difficili. Una vera trasformazione produttiva si avrà solo dopo il XVIII secolo.

Ad ogni modo, non è proprio corretto parlare di un vino medievale, così come ho cercato di far capire che non esisteva un vino romano o dell’antichità. Il periodo medioevale è stato molto lungo e con notevoli trasformazioni. Vedremo meglio come erano questi vini nel prossimo post.

Il vino per tutto: ma quanto bevevano nel Medioevo!?!

“Vinum dulce, gloriosum / pingue facit et carnosum / atque pectus aperit. / Et maturum, gusto plenum / valde nobit est amenum / quia sensus asuit. / Vinum forte, vinum purum / reddit hominin securum / et depellit frigora …”.

Anomino medievale

“Il vino, dolce e glorioso, ingrassa l’uomo e gli dà salute. Quello maturo e dal gusto pieno è molto gradito ed acuisce i sensi. Il vino forte e puro rende l’uomo sicuro ed allontana il freddo …”

Il consumo di vino nel Medioevo italiano (almeno dal ‘200), come già in epoca antica, era quotidiano e molto abbondante. Ben diversa era la situazione nell’Europa continentale, dove il vino rimase la bevanda del clero e dei ricchi per un tempo molto più lungo, sia per il produzione che per il consumo.

Non dovete però pensare che fossero sempre tutti ubriachi :-). I vini più alcolici, tipo i nostri, allora erano riservati solo per gli eventi importanti, come la visita di ospiti, i banchetti, le feste, … Il consumo quotidiano riguardava principalmente un vino leggero e poco alcolico, spesso allungato con acqua. Spessissimo era bevuto anche il cosiddetto “vinello” o “acquerello” (lo “loria” dell’epoca romana) un prodotto leggermente alcolico ottenuto ripassando le vinacce con l’acqua. La produzione del vinello sparirà in Italia solo con il primo Novecento, vietata per legge per contrastare le frodi in commercio. Tornando al Medioevo, fra le diverse tipologie di vino, secondo gli storici, non c’era solo una distinzione fra vino da ricchi e vino da poveri. Tolti i vini più costosi, che ovviamente i meno abbienti non si potevano permettere, sembra che tutti bevessero vino in certe occasioni e vini leggeri (o annacquati o il vinello) più quotidianamente, per dissetarsi.

Infatti all’epoca bere acqua era molto poco salutare: i fiumi ed i pozzi erano spesso sporchi di fango e rifiuti, l’acqua aveva facilmente contaminazioni microbiologiche che causavano dissenterie o altre malattie (come succede ancora oggi in certi paesi molto poveri). Per questo si considerava più salubre bere un vino molto leggero. Non è così sbagliato: anche una bassa gradazione alcolica può essere sufficiente per eliminare alcuni microorganismi.

Quanto bevano? Si è stimato che la media di consumo di un cittadino di Firenze o Bologna nel Quattrocento potesse essere di quasi due litri al giorno. Considerate che la media oggi in Italia è di circa 22 litri all’anno. Il paragone è impossibile: oggi beviamo vini più alcolici, giustamente con moderazione (e non tutti sono consumatori di vino). Non bevevano solo gli adulti, uomini e donne, ma anche i bambini. Ad esempio, nel trattato quattrocentesco di Bartolomeo Platina, De honesta voluptate et valetudine il vino viene sconsigliato solo per i lattanti sotti i 5 mesi. Per i bambini ed i ragazzi fino ai 14 anni era indicato però solo durante i pasti, molto ben allungato per i più piccoli. Dopo i 14 anni erano considerati adulti.

Il vino era ovviamente anche una forma di svago, di fuga dalle difficoltà della vita quotidiana. La celebrazione del vino entrò così anche nei canti goliardici dei Clerici vaganti, gli studenti che si muovevano da tutta Europa per studiare nelle città italiane dove erano nate le prime università al mondo, Bologna in testa, Padova e tante altre. Ecco un canto gogliardico del XIII sec., In taberna quando sumus, nella celebre rivisitazione di Carl Orff (Carmina Burana).

Tam pro papa quam pro rege / bibunt omnes sine lege. /Bibit hera, bibit herus, / bibit miles, bibit clerus, /bibit ille, bibit illa, /bibit servus cum ancilla, / bibit velox, bibit piger, / bibit albus, bibit niger, / bibit constans, bibit vagus, / bibit rudis, bibit magus. / Bibit pauper et egrotus, / bibit exul et ignotus, / bibit puer, bibit canus, / bibit presul et decanus, / bibit soror, bibit frater, / bibit anus, bibit mater, / bibit ista, bibit ille, / bibunt centum, bibunt mille…

… Tanto per il papa quanto per il re, / tutti bevono senza misura. / Beve la signora, beve il signore, / beve il militare, beve il clero, / beve quello, beve quella, / beve il servo con l’ancella, / beve il veloce, beve il pigro,  / beve il bianco, beve il nero,  / beve il costante, beve il frivolo,  / beve l’ignorante, beve il dotto. / Beve il povero e il malato, / beve l’esule e lo straniero, / beve il fanciullo, beve l’anziano, / beve il vescovo e il decano, / beve la suora, beve il monaco, / beve la nonna, beve la madre, / beve questa, beve quello, / bevono cento, bevono mille…

Il vino all’epoca non era solo consumato per diletto e per dissetarsi ma era anche considerato positivo per la salute, una sorta di vero farmaco corroborante per i malati, come in antichità. Il vino è uscito definitivamente dai trattati ufficiali di medicina solo col ‘700. Veniva dato ai degenti ed ai pellegrini negli ospedali. Anche ai poveri venivano elargiti, come alimenti fondamentali, sia pane che vino. Le calorie offerte dal vino erano importantissime per integrare i pasti quotidiani. Erano frequenti le donazioni di vino da parte di cittadini facoltosi alle istituzioni caritatevoli, annotate minuziosamente nella contabilità delle Opere così come in quella domestica dei benefattori.

Il vino era parte anche della paga dei lavoratori, sia nei campi che per manovali e muratori e tanti altri, che potevano anche rifiutare un lavoro se il vino (o il vinello) era negato o non era abbastanza buono.  Scrive il francese Ch. M. de la Roncière nel Trecento, in visita a Firenze, che i salariati fiorentini patiscono più la mancanza di vino che di carne e annota stupito: “Le vin coule à flots sur les tables florentines” (Il vino scorre a fiotti sulle tavole dei fiorentini). Anche i religiosi bevevano abitualmente. I frati dell’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena che trasgredivano alle regole, nel primo ‘300, erano puniti con una dieta di solo pane, ma il vino non era comunque fatto mancare.

Le osterie e le mescite dovevano avere regolari licenze rilasciate dai Comuni, mentre il vino poteva essere venduto per il consumo casalingo o ai dettaglianti da qualsiasi privato. Non esisteva propriamente il produttore di vino, come oggi. A Firenze, ad esempio, vendeva vino chiunque avesse un pezzo di terra dedicato alla vigna, piccolo o grande che fosse, sempre che producesse un’eccedenza rispetto il proprio consumo famigliare.

I locali per il consumo del vino erano numerosissimi nelle città e nei villaggi. Scrive ancora de la Roncière che a Firenze si trovavano mescite e taverne a tutti gli angoli di strada. Gli orari di esercizio erano rigidamente regolamentati dagli Statuti Comunali, influenzati dal controllo religioso dell’epoca sulla vita sociale. Ad esempio i vinattieri fiorentini dovevano stare chiusi durante la Quaresima ed il Venerdì Santo ed in altri periodi religiosi. Sempre a Firenze, non era possibile aprire un’osteria a meno di trenta braccia da chiese e da croci. A Montopoli si doveva chiudere ogni rivendita di vino mentre si celebrano le funzioni sacre nelle chiese, quindi per quasi tutti i giorni festivi. A spaventare le autorità non era solo il vino ma l’abbinamento col gioco d’azzardo, anch’esso severamente regolamentato. Il vino era venduto anche negli alberghi. A Montaione, nel Quattrocento, si trovano liste distinte fra quelli che ne dispongono, favoriti dal Comune, da quelli sprovvisti di vino.

Nella novella del Boccaccio “Cisti fornaio” (Decamerone, 1350-1353, Giornata sesta, novella II) Pampinea racconta di Cisti, fornaio intelligente e cortese nonostante la sua classe sociale. Nella sua bottega aveva “tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado“. Tutte le mattine vedeva passare davanti alla sua bottega messer Geri Spina, nobile fiorentino, in compagnia di altri signori, soprattutto ambasciatori pontifici. Avrebbe voluto invitarli a bere e far parte di quella bella compagnia ma, data la sua classe sociale, egli non poteva farsi avanti. Così iniziò a mettersi ogni mattina fuori dalla sua bottega a sorseggiare con grande soddisfazione uno dei suoi migliori vini bianchi. Dopo qualche giorno, sia per la curiosità che per la sete, la compagnia di Geri Spina chiese di assaggiare il vino e tutti restarono colpiti dalla sua bontà. Da allora, ogni giorno, il gruppo si fermava dal fornaio a chiacchierare e degustare buoni vini. Alla partenza degli ambasciatori, Geri Spina volle offrire un banchetto ed invitò anche Cisti. Questi però declinò, perché non sentiva di poter partecipare, ma volle comunque mandare un po’ del suo ottimo vino bianco. Geri mandò quindi un servo a prendere il vino. Questi, che voleva tenersene una parte per sé, arrivò da Cisti con un fiasco molto grande. Cisti intuì l’intento del servo e lo rimandò indietro, dicendogli che Geri, con quel fiasco, non lo mandava certo da lui, ma piuttosto a prendere l’acqua in Arno. La scena si ripetè due volte. Geri chiese allora al servo di mostrargli il fiasco e vedendone la dimensione, capì l’accaduto. Cisti confidò a Geri che non si rifiutava di riempire il fiasco per avarizia ma perché quello era un vino di tal valore che non poteva essere sprecato per grossi fiaschi. Quando il servo tornò col fiasco giusto, Cisti lo riempì e e lo donò per il banchetto. Così Geri, capendo l’intelligenza e l’arguzia di Cisti al di là della classe sociale, strinse con lui un rapporto di amicizia. “Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.”

Segue …

Bibliografia:

 Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.

Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.

Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.

Branca Paolo (2003) Il vino nella cultura arabo-musulmana. Un genere letterario… e qualcosa di più. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 165-191.

Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale

AAVV (1988) Il vino nell’economia e nella Società italiana medioevale e moderna. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, in Quaderni della Rivista di Storia dell’Agricoltura, Accademia dei Georgofili Firenze.