Dopo le epoche più antiche, le prime interpretazioni sul processo di fermentazione in sé compaiono solo nell’era degli alchimisti-scienziati, il Seicento. È il momento storico in cui, pur mescolando ancora aspetti oscuri a una primitiva scienza sul nascere, l’investigazione sul mondo si fa comunque più profonda e curiosa.

La comprensione di questo processo  iniziò con  l’osservazione del fatto che con la fermentazione si forma una sostanza che prima non c’era: l’alcol (anche se allora non era chiamata così). L’identificazione di questa sostanza (in senso molto generico) trova le sue radici nella distillazione e nell’alchimia.

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L’alchimia è stato un miscuglio di conoscenze pratiche e di scienza sperimentale, frammiste a numerosi aspetti mistici e magici. Trova le sue radici nell’antichità greca ed egiziana, per affinarsi soprattutto nel Medioevo dal VIII secolo, prima presso la cultura araba e poi nell’Occidente cristiano, aprendo la strada alle prime conoscenze chimiche.
Constantine the African lecturing to the school of Salerno
La Scuola Medica Salernitana è stata la prima e più importante istituzione medica d’Europa, anticipatrice delle università che nasceranno poi. Vi si esercitava ed insegnava la medicina, sulla base delle conoscenze delle opere mediche greche, latine e, dal X sec., anche arabe. Le origini si perdono nella leggenda, forse con i primi insediamenti benedettini del VIII secolo. Il periodo di massimo splendore si ebbe fra XI e XIII secolo, poi via via decadde, soppiantata dalle nascenti università di Padova, Bologna e Montpellier.

Gli alambicchi più antichi risalgono al II sec. a.C., trovati in Mesopotamia ed Egitto. In antichità erano usati solo per produrre essenze per preparare balsami profumati o per usi medici. La distillazione dell’alcol, per produrre soluzioni idroalcoliche, è iniziata probabilmente con gli alchimisti arabi Rhases e Avicenna (Ibn Sīnā) fra i secoli X e XI. Queste conoscenze furono raccolte e diffuse in Occidente soprattutto dalla Scuola Salernitana, dal X secolo in poi.

 

Nel XIII secolo il filosofo e vescovo tedesco Alberto Magno parla nei suoi scritti di “aqua ardens” ottenuta dalla distillazione del vino, così leggera da galleggiare sull’olio.  Aqua ardens, spirito ardente e spirito di vino sono tra i termini più usati  per secoli per indicare l’alcol  o una soluzione idroalcolica più o meno concentrata. Spirito deriva dal latino “spiritus” che significa soffio, respiro, spirito vitale e, per estensione,  esalazione. Il termine alcol verrà più tardi. Il distillato da bere era indicato in questo periodo col termine generico di acquavite, qualunque fosse la materia di partenza.

Il primo testo che descrive dettagliatamente come produrre acquavite da vino con un sistema a doppia fermentazione è del 1276 (nel codice vaticano Consilia). Si deve al medico fiorentino Taddeo Alderotti, uno dei più famosi del suo tempo, citato anche nel Paradiso di Dante (12:82-85). Inizialmente era effettuata solo nei  monasteri ma, da lì a un secolo, la produzione di acquavite divenne sempre più popolare. Fu diffusa soprattutto grazie al trattato del medico padovano Giovanni Michele Savonarola (1385-1468), il  “De conficienda Aqua Vitae”, che spiegava come prepararla (questo Savonarola è il nonno del più celebre frate domenicano Girolamo Savonarola).

Quindi dalla pratica empirica della distillazione, sempre più perfezionata, nacque l’identificazione della sostanza che caratterizza il vino dal mosto. Sulla base di queste conoscenze, nel Seicento, troviamo i primi tentativi di interpretazione della fermentazione.

Il Seicento è un’epoca che rappresenta uno spartiacque nella storia dell’umanità e della scienza, grazie alla nascita del metodo sperimentale. Questo permetterà di superare nel tempo il principio d’autorità  e di distaccarsi via via dagli aspetti mistici e magici dell’alchimia.

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Questo schema sintetizza in modo molto semplificato i diversi approcci al sapere scientifico della storia. Galileo Galilei è stato uno dei principali esponenti di questa incredibile rivoluzione che separa nettamente ciò che è scienza da ciò che è solo opinione o credenza e che ha cambiato il modo dell’umanità di capire il mondo. Non è che prima di lui nessuno avesse mai pensato di fare esperimenti, tuttavia con lui questo modo di agire diventa sistematico e preciso. Nell’antichità la conoscenza dei filosofi era di natura essenzialmente speculativa, cioè basata sul ragionamento: un sistema sicuramente efficace per diversi aspetti ma estremamente limitante per conoscere la natura, il mondo. Dal Medioevo al Seicento vigeva soprattutto il principio dell’autorità, contro cui Galileo si scontrò duramente. Si poteva porre fine ad ogni discussione riferendosi al parere di una qualche fonte autorevole, quali autorità religiose (gli scritti sacri o dei Padri della Chiesa) o riferimenti culturali come Aristotele. Galileo introdusse, con altri, il sistema sperimentale. Per Galileo osservare e sperimentare significa interrogare il grande libro della natura. Scrisse: «…I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.»

Naturalmente non  si è trattato di un taglio netto. Per ancora qualche secolo si rimase in un mondo di mezzo, in bilico fra razionalità e pensiero magico, con diverse figure di scienziati già lanciate avanti e molti ancora legati al passato. Anche gli scienziati ricordati oggi per importanti scoperte e contributi portavano ancora in sé (chi più, chi meno) aspetti magici o irrazionali.

V0005184 Angelo Sala. Line engraving. Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Angelo Sala. Line engraving. Published: - Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Angelo Sala è considerato il fondatore della chimica degli zuccheri. Fu definito nel Settecento come “primus chemicorum, qui desiit ineptire”: il primo dei chimici che smise di essere sciocco.

Tornando al nostro tema, alla fine del Cinquecento il grande medico e chimico vicentino Angelo Sala (1576 – 1637) fece i primi studi sulla formazione di alcol dai mosti in fermentazione.

 

Van Helmont può essere un valido emblema del difficile passaggio fra credenze e scienza. Secondo lui le stelle non hanno il potere di causare nulla e d’influenzare nessuno. Sostenne però nei suoi scritti, raccontando anche di aver fatto un esperimento,  la credenza che i topi nascessero dallo sporco e dal sudore. Oggi è ricordato soprattutto per il suo fondamentale contributo alla chimica dei gas: è stato il primo ad identificare lo stato gassoso della materia e a capire che l’aria è composta da una serie di gas diversi. Coniò lui stesso la parola gas, a partire dal greco chaos (dal movimento caotico delle particelle di questo stato della materia).

Poco più tardi il medico e filosofo fiammingo Johannes Baptiste van Helmont (1580-1644), discepolo (e critico) di Paracelso, ammiratore del nuovo metodo sperimentale, fu fra i primi ad ipotizzare che la fermentazione fosse un processo di natura chimica, mediato da non ben precisati intermediari. Per van Helmont (e altri del suo tempo) la realtà è costituita da “minima naturalia”, elementi piccolissimi, corpuscoli alla base di tutta la materia. Le reazioni chimiche, che chiama tutte abbastanza indistintamente “fermentazioni “ o “effervescenze”, sono addizioni o sottrazioni di queste particelle. Alla base delle reazioni c’è un principio spirituale che attua attraverso dei “fermenti”, dei mediatori non identificati.

Oltre a questo, van Helmont riconobbe che il gas  che si libera nella fermentazione è lo stesso che si ottiene bruciando del carbone, chiamato all’epoca gas silvestre (perché derivante dalla combustione di materia vegetale). Oggi lo chiamiamo anidride carbonica.

Un altro esponente di questo mondo in bilico fra scienza nascente ed alchimia è  Nicolas Lémery (1645-1715), studioso francese che, nella seconda metà del Seicento, considerava cinque sostanze alla base delle cose naturali: Acqua, Spirito, Olio, Sale e Terra. La sua opera “Corso di chimica” (1687) ebbe una grande fortuna e fu considerata a lungo un testo di riferimento. In esso troviamo una spiegazione dettagliata del processo della fermentazione alcolica:

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Lémery cerca di spiegare “chimicamente” cosa succede ma non si interroga sul perché o chi è responsabile di questo fenomeno. Anche lui è ancora un po’ alchimista, facendo ricorso ai diversi elementi della materia. Eppure, nella parte più teorica del testo, afferma che la scienza è l’unica via per esplorare il visibile, senza ricorrere a spiritualismo o magia: “…la maniera della quale la Natura si serve delle sue Operazioni, il che è perfettamente spiegato dalla Chimica”. Inoltre crede nel concetto di lavorare su fatti dimostrabili : “…e non mi preoccupo d’alcuna Opinione che non sia fondata sull’Esperienza”.

Bisogna sapere che il mosto contiene molto di questo Sale essenziale: questo Sale come volatile facendo forza nella fermentazione per distaccarli dalle parti oleose, dalle quali era quasi legato, le penetra, le divide, le squarcia, finché con li suoi punti sottili e taglienti, l’abbia rarefatte in Spirito. Questa forza causa l’ebollizione che accade al Vino, e nel medesimo tempo la sua purificazione, perché ne fa separar e squarciare le parti più grosse in forma di spuma, una parte della quale s’attacca e si pietrifica ai lati della Botte, e l’altra si precipita sul fondo: questo è quel che si chiama il Tartaro e la flece. …”

Secondo Lémey quindi la vinificazione consiste nella trasformazione di  una parte del mosto (Oglio) in alcol (Spirito), grazie ad un’azione di “rarefazione” da parte dei Sali Acidi.  Per Oglio intende la parte che rimane non distillabile, mentre lo Spirito è la parte che può essere distillata ed infiammabile. Per Sali intende sia quelli che rimangono incrostati sulle pareti delle botti (l’acido tartarico) che quelli che precipitano sul fondo al termine della vinificazione.

Sono ancora i medesimi Sali che essendo un poco districati da i loro inviluppi, mutano la dolcezza fiacca del Mosto in un aggradevole pungimento, tal quale sentiamo ne Vini di Francia.”

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Natura morta con uva di Luca Forte (1630)

Lémery, pur col suo linguaggio per noi un po’ oscuro, inizia ad identificare diversi elementi presenti nel mosto e nel vino, pur attribuendo loro ruoli nella fermentazione non proprio esatti. Questa sua spiegazione tuttavia rimarrà a lungo come riferimento. Infatti la ritrovimo più o meno tale e quale nel “Dizionario di Chimica” di Pierre Joseph Macquer del 1766. Troviamo scritto sotto la parola Vino (dall’edizione tradotta in italiano da Giovanni Antonio Scopoli del 1778): Finalmente, se venga sottoposto alla distillazione, …, si ottiene un liquor volatile, spiritoso, ed infiammabile, che si chiama spirito di vino o spirito ardente. Questo spirito è quindi un nuovo ente prodotto dalla descritta fermentazione.”

Si coglie però anche il passo avanti fatto dai chimici del primo Settecento, i quali ragionano anche su quale sia la sostanza trasformata in alcol. Infatti scrisse:

Se vengano esaminate le qualità del vino , che ha sofferto il primo movimento della fermentazione ora descritta, si troverà, che distinguesi essenzialmente dal sugo dell’uva non fermentata. Non ha più lo stesso sapore dolce, ma un altro, che sebbene gustoso, è però molto diverso per avere qualche cosa di spiritoso o di piccante. In vece di produrre un effetto lassativo, come il mosto, il vino per lo contrario dà alla testa, quando è preso per una certa dose, e cagiona, come ognuno sa, ubbriachezza.”

Egli annota che la fermentazione avviene più facilmente e si produce più sostanza spiritosa più l’uva è matura. L’uva acerba e quella matura cambiano nel sapore: l’una è più acida e per niente dolce, l’altra è molto zuccherina.

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Pierre Joseph Macquer al lavoro nel suo laboratorio, da un’illustrazione dell’epoca.

Da ciò si può facilmente concludere che nella maturazione dell’uva e degli altri frutti tutta l’operazione incognita della natura consiste  nel produrre in queste materie un nuovo essere, un nuovo misto, cioè la materia zuccherosa. Questa materia involge così bene l’acido, o diviene nei frutti così atti a far vino come le uve  dominante …, essendo certo che il principio zuccheroso è la vera materia della fermentazione spiritosa.”

Macquer fa seguire una lunga e precisa riflessione, alla luce di questa idea, sulle pratiche tradizionali di certe zone geografiche di aumentare lo zucchero nelle uve concentrandole per appassimento. Cita anche la  pratica di aggiungere zucchero direttamente al mosto. Inoltre segnala che già ad inizio secolo il medico olandese Herman Boerhaave (1668-1738) indicava come lo zucchero ordinario sia un mezzo efficace a promuovere la fermentazione”. La pratica dello zuccheraggio fu poi diffusa fra i produttori di vino francesi nei primi decenni dell’Ottocento, grazie soprattutto al chimico Jean-Antoine Chaptal  (a cui è rimasta legata nel nome francese: chaptalisation).

Ma con quale mezzo compie la natura un tale cambiamento? … Tutto ciò è un arcano della natura a noi ignoto, né così facile da scoprire.

Il primo a descrivere in modo chiaro cosa succede durante la fermentazione fu Antoine-Laurent de Lavoiser (1743-1794) nel suo “Trattato elementare di chimica” del 1789.  Lavoisier è  una di quelle figure che hanno cambiato la storia. E’ riconosciuto come il “padre della chimica moderna” che, grazie a lui, si distaccò completamente dall’alchimia.

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Lavoisier diede le basi alla chimica moderna: scoprì il ruolo dell’ossigeno nella combustione e ossidazione dei metalli (archiviando la teoria alchemica del flogisto), enunciò il principio di conservazione della massa nelle reazioni ( «Rien ne se perd, rien ne se crée» “Nulla si perde, nulla si crea”),  fondò la chimica moderna su basi quantitative, introducendo l’uso di strumenti di precisione, riformò la nomenclatura delle sostanze chimiche. Durante la rivoluzione Lavoiser non volle abbandonare la Francia nonostante fosse nobile ed avesse un’agenzia di esattoria delle tasse. Fu processato da un tribunale rivoluzionario a cui chiese la grazia. Sembra che il Giudice abbia risposto che “la Rivoluzione non ha bisogno di dotti”. Così fu ghigliottinato a Parigi nel 1794, all’età di 51 anni. La società internazionale e scientifica dell’epoca rimase sconvolta dell’accaduto. È passata alla storia la frase che disse il matematico Lagrange quando seppe della sua morte “Ci è voluto solo un istante perché gli staccassero la testa, ma non basterà un secolo perchè la Francia ne abbia un’altra così”.

Con lui si inizia a parlare di alcol e non più di spirito di vino. Infatti riteneva questo termine poco adeguato perché questa sostanza poteva formarsi non solo dal vino, ma anche dal sidro o dallo zucchero.

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Particolare del celebre ritratto che David fece a Lavoisier e la moglie. Marie-Anne Pierrette Paulze, moglie di Lavoiser, fu sua collaboratrice, tradusse per lui opere scientifiche dall’inglese e illustrò i suoi libri. Per molti studiosi Marie-Anne Paulze potrebbe essere una delle tante scienziate “nascoste” della storia, vissuta in un’epoca (e in una classe sociale) che non la riconobbe tale in quanto donna.

Scrisse: Siamo stati quindi forzati ad adottare un nome più generale, e questo è quello di alkool derivato dagli arabi, ci parve il più confacente al nostro oggetto”.

La parola alcol deriva dall’arabo al-ko-ol. In origine si riferiva alla polvere finissima e nera che le donne usavano per truccarsi gli occhi. Da qui, nell’alchimia araba, venne usato per indicare un qualsiasi composto in polvere sottilissima e così passò anche nel Medioevo Occidentale. Venne poi utilizzato per indicare l’essenza più pura di una sostanza. Sembra che il primo ad usare il termine alcol nel senso moderno fu Paracelso (Theopharst Bombast von Hohenheim, 1493-1541) fra i più noti medici alchimisti della sua epoca. Lo introdusse però nell’uso comune  scientifico Lavoisier. Infatti egli viene ricordato anche per la sua importante riforma della nomenclatura della sostanze chimiche, alla base di quella moderna. Volle passare dai termini oscuri e vaghi di origine alchemica ad altri più concisi e razionali.

Tornando alla fermentazione, Lavoiser, sulla base delle conoscenze fino ad allora accumulate, la descrisse approssimativamente come:

mosto d’uva = acido carbonico (anidride carbonica) + alcol levure

Riprodusse quindi sperimentalmente il processo con zucchero sciolto in acqua tiepida, per poi stimare in modo molto preciso le quantità di sostanze  fermentate  e dei prodotti ottenuti, determinandone anche  la composizione. Fu il primo a scrivere una reazione chimica come una equazione. Scrisse: in questi esperimenti, noi possiamo assumere che esiste un reale equilibrio o equazione tra gli elementi da cui si parte e quelli ottenuti alla fine della reazione. Le misure non erano proprio precisissime (dati anche i limiti degli strumenti dell’epoca) ma fu una vera e propria rivoluzione per la chimica.

Egli descrisse come lo zucchero si sdoppiasse in due parti, e che la fermentazione consistesse nell’ossigenazione di una di esse a spese dell’altra con formazione di una sostanza combustibile, l’alcol. Dimostrò che la trasformazione non era quantitativamente esatta perché si formano anche altri prodotti secondari.

La formula della reazione fu poi definita in modo quantitativamente più preciso nel 1810 dal chimico francese Joseph Louis Gay-Lussac (1778-1850), grazie al perfezionamento ulteriore degli strumenti di misura.

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La strada era ormai aperta: da allora in poi i chimici affinarono sempre più le conoscenze sulla reazione, arrivando a definirla con estrema precisione. Oggi viene schematizzata nel modo seguente.

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Il veneziano Vincenzo Dandolo (1758-1819) fu un’eminente figura della sua epoca: chimico, politico, agronomo, dalle idee molto avanzate.

Per arrivare a questa formula tuttavia manca ancora un passaggio fondamentale: all’epoca di Lavoisier non esisteva ancora la chimica organica!

Infatti non si era ancora riusciti a rispondere a quella domanda fondamentale che ci siamo portati appresso in questo viaggio nei secoli: chi opera tutto questo e perché?

Questa domanda sorse spontanea anche a Vincenzo Dandolo, traduttore italiano (contemporaneo) delle opere di Lavoisier che, oltre a tradurre, fece anche numerose annotazioni al testo. Lavoisier infatti, nel descrivere i suoi esperimenti, racconta che allo zucchero aggiunge lievito di birra. Dandolo annota che quest’ultimo è “formato ordinariamente dal sedimento della birra stessa.  Dandolo si chiede perché, come opera  il lievito di birra? Dunque la teoria dell’autore sulla fermentazione dello zucchero non è ben determinata… Dunque il lievito diventa sostanza essenziale ed indispensabile per effettuare una completa fermentazione, tuttoché vi siano acqua, calore e zucchero”.

8e13651d-338c-441e-954f-c3eafa587174Di nuovo, non confondiamoci! Allora si sapeva già del lievito? No, si usava questo termine per indicare un qualcosa che empiricamente si era visto utile a facilitare la fermentazione. Già dalle epoche più antiche si era visto che aggiungendo dei sedimenti della fermentazione (o un po’ di pasta di pane lievitata nel caso della panificazione) il processo partiva con maggior facilità. Tuttavia a fine Settecento, pur avendo definito di massima cosa succede, non si aveva ancora idea del perchè.

Si chiede ancora Dandolo:Qual principio fermentante introduce questa sostanza, o qualunque altra atta a promuovere questa prima notabile alterazione…? Questo fenomeno sarebbe forse da riferirsi all’azoto che il lievito contiene? Se sì, come opera l’azoto?

Afferma che i lieviti usati tradizionalmente sono di due specie: 1.corpi sommamente putrescibili contenenti azoto”, raccontando come alcuni agevolano la fermentazione buttando nel tino pezzi di carne. Inoltre racconta come i Cinesi, per stimolare la fermentazione di un decotto di avena e orzo, ci aggiungano escrementi.   2. Corpi che contengono molto ossigeno come acidi, sali neutri, creta, ossidi metallici, ecc.

Al di là di questi anedotti e teorie, per molti all’epoca (come per lo stesso Dandolo) il lievito era un qualche composto chimico. Solo Pasteur, nella seconda metà dell’Ottocento, mise fine a questa lunghissima diatriba, identificandolo in un organismo vivente.

Tuttavia il lavoro di Pasteur non nacque dal nulla e fu un traguardo molto difficile e molto controverso.

(continua qui e qui)