Atis, TreStelle Oro della guida Veronelli

Il nostro Atis Bolgheri DOC Superiore 2017 ha ricevuto un importante riconoscimento dalla prestigiosa guida Veronelli 2021, le Tre Stelle Oro. Ne siamo molto orgogliosi. Grazie di cuore a tutto lo staff. Lo hanno assaggiato in anteprima, ricordo che questa annata sarà disponibile a marzo/aprile 2021.

 


Il nostro Rute ed i TreBicchieri del Gambero Rosso

Michele ed io siamo rimasti stupiti quando abbiamo saputo che il Rute aveva vinto i TreBicchieri. Era andato in finale, come già aveva fatto altre volte, ma non ce lo aspettavamo. Siamo stati  sorpresi che il Gambero Rosso abbia deciso di premiare a Bolgheri non solo i vini di lunghissimo invecchiamento e concentrazione, come i Superiori, ma anche i Rossi. Ne siamo contenti, anche perché non si vive di soli vini importanti, che si bevono solo in occasioni particolari.

Così, dopo l’Atis (il Bolgheri Superiore), Jassarte e Criseo, anche il Rute entra nel gruppo dei nostri vini che ricevono riconoscimenti dalla critica. E lo fa alla grande.  Conferma, ancora una volta, come tutta la nostra gamma sia di grande valore.

Se devo descrivere Rute (rosso in Etrusco) in una parola, direi eleganza. Purtroppo è molto abusata, anche per vini che sono tutt’altro che eleganti. L’eleganza è fatta da aromi fini e complessi, da una giusta concentrazione alleggerita (ma non banalizzata) da una grande freschezza, che si traduce in verticalità gustativa. Rute è un rosso che ha capacità molto buone di invecchiamento, che possono anche arrivare a 10 anni.

Queste caratteristiche nascono dal Genius Loci delle nostre vigne, fra le colline di Bolgheri: un territorio marino e ventoso, mediterraneo, fatto anche di colline con forti escursioni termiche estive fra il giorno e la notte, suoli alluvionali leggeri, profondi e ben drenati.

 

Ad ogni modo, vi dico un trucco da addetto ai lavori: la capacità di un’azienda di lavorare bene non si capisce dai vini più importanti. Quelli sono una piccola nicchia, da curare e coccolare. Vorrei vedere che non siano di qualità, vorrebbe dire che si sono fatti errori veramente grossolani.

La qualità di un’azienda si misura veramente sui vini di base. Se si fanno molto bene anche quelli vuol dire che si è capaci di lavorare bene sempre, dove non è facile e scontato. E con un pizzico d’orgoglio, posso dire che il nostro lavoro artigianale è sempre lo stesso: sappiamo curare con estremo amore tutte le nostre vigne e ogni partita di uva che entra in cantina (Michele dice che qui divento un po’ leziosa, sarà!).

Passare dai vini di grande invecchiamento a quelli più giovani, non dovrebbe significare scadere nella qualità dell’uva o lavorare meno bene. Significa lavorare in modo diverso. In vigna, una volta scelte le particelle più adatte per l’uno o l’altro tipo, significa lavorare al meglio per aiutare le viti a trovare equilibri produttivi diversi, più ristretti per l’uno e un po’ più ampi per l’altro, in modo da avere uve con equilibri e concentrazioni differenti, che sprigioneranno al meglio le loro caratteristiche nel tipo di vino che andranno ad originare. Così sarà in cantina: percorsi diversi, più brevi o più lunghi, ma ugualmente curati.


La vinificazione dell'epoca Romana, dove tutto ha avuto inizio II: le pratiche enologiche

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Entriamo ora nel dettaglio dell'enologia dell'epoca Romana.

Le pratiche enologiche

Fra le pratiche enologiche  al primo posto non possiamo che mettere il taglio, nel quale sta buona parte dell’arte del bravo cantiniere di ogni tempo. Ad esempio, Plinio cita i Liguri e gli abitanti della zona del Po’ come usi a tagliare i vini troppo aspri con altri più leggeri. I vini di Marsiglia sono citati come ottimi vini da taglio, perché troppo intensi da essere consumati da soli.

Per migliorare vini un po' poveri, la pratica meno invasiva era quella di farli permanere sulla feccia di vino buono. Ad esempio, si racconta che il vino di Sorrento era messo in dolii con le fecce del pregiato Falerno, per dargli più gusto. All’epoca conservavano la feccia di qualità facendola seccare in forno, in pani. L'aggiunta di feccia era anche una classica tecnica del passato per superare i blocchi fermentativi, anche se naturalmente non sapevano di inoculare così dei lieviti.

 

Avevano poi messo insieme una serie di sostanze da aggiungere al vino con intento migliorativo, soprattutto per la produzione della grande massa dei vini di media-bassa qualità. Come ho raccontato qui, allora si tendeva principalmente a produrre tanta uva, con la conseguenza di avere mosti/vini poveri di diversi elementi o con difetti più o meno accentuati. Diverse di queste correzioni rimarranno alla base dell'enologia moderna, con la differenza (non secondaria) che oggi si usano sostanze purificate. Sono state anche eliminate tutte quelle tossiche. Resta il fatto che i vini migliori (allora come oggi) non ne avevano bisogno, come ci racconta Columella.

Pompei-Casa-Amorini-Dorati-12Un'aggiunta comune era quella del mosto cotto, che era lo "zucchero" dell'epoca (insieme al miele). Si otteneva da mosto di uva surmatura che veniva concentrato con una bollitura lenta. Formava così un liquido alquanto zuccherino, scuro, con gusto più o meno caramellato e ricco di profumi. Durante la cottura si potevano anche aggiungere diversi frutti o erbe aromatizzanti. Nella produzione di vino, poteva essere aggiunto al mosto in fermentazione per aumentare la componente zuccherina di uve di bassa qualità. Oggi ricordo che è consentito aggiungere mosto concentrato e rettificato o lo zucchero (quest’ultimo non è ammesso in Italia). Il mosto cotto poteva anche essere aggiunto al vino già finito ed in questo caso si parlava di “vino cotto”. L'uso del mosto cotto rimarrà per tutti i secoli successivi in Italia, soprattutto nel centro e nel sud. La produzione del mosto cotto in epoca romana era però dannosa per la salute, perché era bollito principalmente in pentoloni di piombo. Nella bollitura si forma il diacetato di piombo (sale di piombo dell’acido acetico) che ha un gusto dolce, detto anche zucchero di Saturno, saccharum Saturni (Saturno era il simbolo alchimistico del piombo). La sua ingestione, come altre forme di assimilazione del metallo, può causare gravi problemi di tossicità cronica, con lo sviluppo di una malattia detta saturnismo. Il quadro è molto complesso e comprende danni mentali, l'alterazione di diversi organi e del sangue. C'è chi ha ipotizzato che certe forme di pazzia attribuite ad alcuni imperatori romani potessero essere sintomi di saturnismo.

DSC_7870.JPG_2010112382210_DSC_7870Spesso aggiungevano galle di quercia seccate, escrescenze che si formano sulla pianta in seguito all’attacco di parassiti (i cinipidi, insetti imenotteri). Le galle sono state usate per millenni nella produzione del vino (e non solo) perché contengo un’alta percentuale di tannini. Questi sono presenti naturalmente nell'uva e sono componenti importanti del vino, ma possono essere carenti in prodotti di bassa qualità. Oggi non si aggiungono più le galle ma solo i tannini purificati, così come quelli ottenuti dal legno di quercia o di castagno, da essenze esotiche, dai vinaccioli e dalle bucce dell’uva. I tannini danno un gusto un po’ amaro, per cui vanno dosati accuratamente, ma hanno diversi effetti positivi sul vino: migliorano la struttura e il corpo, hanno una certa azione protettiva (ad esempio proteggono dalla laccasi, un enzima deleterio per il vino, che si può trovare in uve aggredite dalla muffa grigia), aiutano a stabilizzare il colore, ...

helleboro_NG2Anche l'aggiunta di altri elementi vegetali aveva un effetto positivo dovuto all'apporto dei tannini, come ad esempio i i noccioli d’oliva oppure l’elleboro nero e bianco (che contiene acido gallico). All'epoca si pensava che questa ranuncolacea avesse effetti conservanti sul vino e che giovasse alla salute. In realtà l’elleboro bianco contiene anche un allucinogeno altamente tossico. Eppure il suo uso è citato spesso nell’antichità, per rischiarare la mente secondo Petronio Arbitro (nel Satyricon) o come rimedio alla pazzia per Orazio (Terza Satira, Libro II) o contro l’epilessia. L’elleboro nero invece è meno dannoso.

Plinio racconta che in Africa si usava aggiungere al vino il gesso, che veniva poi eliminato per sedimentazione. L’aggiunta di gesso è una pratica che è stata usata comunemente fino a non molto tempo fa, denominata "gessatura". Era tipica delle zone molto calde, come il sud Italia e la Spagna. Si spargeva il gesso anche direttamente sopra le uve, durante il trasporto o in fase di pigiatura. Questa aggiunta (ricordo che il gesso è solfato di calcio) ha un’azione acidificante, con l'effetto secondario di ravvivare il colore e di chiarificare il vino. La carenza di acidità è infatti un problema che si può avere spesso in uve prodotte in climi caldi. Il gesso sviluppa anche lentamente acido solforico nel vino, per cui ha anche una certa azione conservante. Porta però ad un accumulo di solfati, che sono tossici al di sopra di certe quantità. Oggi non è più usata. Un altro prodotto usato come acidificante in epoca Romana e moderna era l'allume (solfato doppio di alluminio e potassio con 12 molecole di acqua di cristallizzazione), anch'esso non più utilizzato.

Al contrario, per togliere acidità (un problema soprattutto delle uve dei climi più freschi o non ben mature) aggiungevano polvere di marmo o la calce. Entrambi apportano al vino carbonato di calcio, una sostanza utilizzata per millenni come disacidificante del vino. Ancora oggi è usata, è la più economica, ma comporta diversi problemi come la liberazione di una quantità eccessiva di anidride carbonica. Oggi si preferisce in genere il tartrato di potassio o altro.

Aggiungevano molti tipi di ceneri (incenso arso, cenere di radici di viti, gusci d’ostriche arse, cedro arso, ...). Tutte queste sostanze portano all'incremento di diversi sali. L'effetto è quello di aumentare l'estratto secco e, quindi, di dare più corpo al vino. Anche queste aggiunte sono state usate a lungo nel passato ma oggi sono pratiche illegali.

Per gli autori romani tutte queste sostanze davano un generico miglioramento del vino: argilla, latte, albumi, farina di pisello selvatico (rubiglio), ... Le ho raggruppate perché oggi sappiamo che hanno tutte la stessa funzione. Sono le "antenate" di diverse pratiche enologiche in uso ancora oggi, con funzione chiarificante, affinante e stabilizzante. In generale, smussano l’eccesso di tannini (il vino è meno duro) e migliorano gli aromi. Oggi si usa ancora l'argilla ma purificata, come la bentonite o altri prodotti simili. Anche le proteine di origine animale sono un grande classico di tutti i tempi, come l'albume di uovo sbattuto (albumina), anche se oggi c'è l'obbligo di indicarli in etichetta come allergeni. Dopo millenni di utilizzo, il latte non è più usato tal quale, ma oggi c'è ancora chi impiega un suo estratto, il caseinato di potassio. Le farine di leguminose, soprattutto di piselli, erano usate tal quali fino a non molto tempo fa; oggi si usano estratti proteici vegetali, che derivano ancora soprattutto da queste piante.

 

Altre aggiunte invece riguardavano la produzione di vini considerati particolari, che non erano mai tagliati con quelli normali. L'aggiunta di diverse erbe serviva a produrre vini aromatizzati, come quelli fatti con incenso, rose, assenzio e tanto altro.

Diversi vini importati dalla Grecia, come quelli di Chio, di Coo o il Corineo (da Rodi) erano mescolati ad acqua di mare, purificata per decantazione. I Romani presero dai Greci questo uso, ma in quantità più contenute. Ritenevano che la salatura dovesse essere molto precisa, perché l'eccesso rendeva il vino poco piacevole e anche dannoso per la salute. Aggiunte simili sono state fatte anche fino a non tanto tempo fa, con acido cloridrico o sale da cucina. Oggi sono pratiche vietate. Servivano ad aumentare i cloruri del vino, che possono essere un po’ già presenti (in modo diverso a seconda delle varietà e del territorio), con un effetto di aumento della sapidità e dell’estratto secco (per un vino più corposo).

resinaUn altro ingrediente di alcuni vini romani era la pece (resina) vegetale. Oltre che essere usata per rivestire tutti i contenitori vinari, a volte era aggiunta proprio nel vino, per un prodotto particolare chiamato resimato o impeciato. Questa pratica derivava anch'essa dalla Grecia, dove ancora oggi è prodotto un vino resinato chiamato retsina. Oggi si usa solo la resina del pino d’Aleppo, ma nell'epoca antica si usavano tante essenze diverse, come la trementina o terebinto (essudato del Pinus palustris e altre Pinacee), il mastice dei lentischi, la resina derivata dai semi dell'ambretta o abelmosco (una malvacea orientale), ecc. I diversi tipi di resina erano dissolti nell’olio d’oliva e con esso si conciava il mosto o il vino. L’aggiunta di resina sembra nascere dal fatto che abbia una certa azione antisettica, che determina un’azione protettiva durante la fermentazione, oltre che un’azione conservante. Causa però una forte aromatizzazione del vino, non a tutti gradita.

Curiosamente, mi sono imbattuta nella resina anche in testi enologici più recenti: l'odore resinoso è riportato fra i difetti olfattivi del vino a fine XIX-inizio XX secolo.  Il prof. Antonio Sannino racconta che si riscontra di frequente nei vini Trentini, per via dell'uso di tini fatti con legno di larice o abete.

 

Le pratiche enologiche erano nate per migliorare la produzione ma, nel tempo, con la crescita del settore e degli interessi economici in gioco, degenerarono anche verso adulterazioni e contraffazioni sempre più spinte. Affaristi senza scrupoli usavano uve di qualità sempre più scarsa, che erano poi pesantemente "aggiustate" nelle cantine. In particolare, cercavano di coprire i difetti con trattamenti aromatizzanti molto intensi.

Questi eccessi erano riconosciuti e criticati dai Romani stessi.  Diversi autori scrivono di non apprezzare certe sofisticazioni eccessive, che stravolgevano il gusto del vino o che ritenevano pericolose per la salute. Questi vini trovavano comunque un mercato fra le classi meno abbienti. Ad esempio, Plinio scrive che i vini provenzali erano completamente alterati dall'intensa affumicatura e dall'aggiunta di troppe erbe, fra le quali temeva che ce ne fossero anche di nocive. Racconta dell'uso di aggiungere aloe al vino per alterare colore e sapore. Alcuni autori scrivono, con sarcasmo, che bevono più volentieri il vino Sabino rispetto a tanti altri, anche se non era fra i più pregiati, perché perlomeno era genuino e non troppo contraffatto. Seppure c'era questa percezione, non fu mai creata una legislazione che regolasse il settore e mettesse un limite alle aggiunte fatte ai vini.

 

L'invecchiamento

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L'invecchiamento dei vini all'epoca Romana (invecchiare = vetustescere) era fatto col calore. Veniva fatto solo per i vini selezionati come i migliori, che erano travasati in anfore chiuse col tappo in sughero ed accuratamente sigillate. Dopo di che, erano lasciate sotto il sole o in ambienti caldi. A Pompei sono state trovate anfore un po' ovunque, dagli atri delle case, sotto ai portici, nei sottotetti, nelle cucine, in locali appositamente scaldati con fornaci (hypocaustum), ... Dopo un certo periodo di questo trattamento, erano messe al fresco delle cellae vinariae. Questi vini così invecchiati, secondo le testimonianze antiche, potevano durare a lungo ed erano considerati fra i vini più rinomati.

Come poteva essere il gusto di questi vini? Possiamo trovare una risposta a questa domanda andando a cercare l'uso del calore per l'invecchiamento in epoche più vicine a noi.

C'è un vino che è prodotto ancora oggi con un sistema che assomiglia molto a quello romano. Si tratta del Madeira, prodotto in un arcipelago del Portogallo che si trova al largo della costa nord-occidentale dell'Africa. Il vino viene potenziato nel grado alcolico con l'aggiunta di alcol di canna da zucchero e poi trattato col calore (intorno ai 50°C) per diversi mesi, in contenitori tenuti in locali riscaldati tramite stufe o lasciati sotto il sole. Questa tradizione non sembra derivare dal ricordo dell'antico uso romano. La storia ufficiale del Madeira racconta che è stata una riscoperta recente, che risale al XVI - XVII sec. In questo periodo il vino dell'isola iniziò ad essere trasportato frequentemente via mare e si accorsero che maturava in modo notevole quando passava per due volte l'Equatore. Ad ogni modo, questo vino ha forti note ossidative ed è molto stabile, capace di lunghissimi invecchiamenti.

Date le fortissime somiglianze produttive, possiamo ipotizzare che i vini invecchiati dei Romani fossero simili al Madeira? Possibile, ma non ne avremo mai la certezza.

L'uso del calore non fu però completamente dimenticato dopo l'epoca antica. Continuò ad essere citato nei testi agrari dei secoli successivi, dal Basso Medioevo in poi, ma non sappiamo se fosse ancora utilizzato o meno. Andrea Bacci ("Storia Naturale dei Vini", 1596) scrive che ai suoi tempi il vino era prodotto in modo molto più semplice rispetto ai sistemi accurati dell'epoca antica, dei quali rimaneva solo una vaga idea. Non possiamo però escludere a priori che questa tecnica non fosse ancora utilizzata da qualcuno.

Enotermo Carpené
Enotermo Carpené

Si tornò però a parlare in modo importante dell'uso del calore per l'invecchiamento dei vini nella seconda metà dell'Ottocento e per buona parte del Novecento. Questo ritorno fu stimolato dagli intensi studi dell'epoca sulla natura della fermentazione (vedete qui), che portarono alle importanti scoperte di Pasteur sul ruolo dei microrganismi nel vino, oltre che dell'ossigeno nell'invecchiamento. Grazie a Pasteur nacque la pastorizzazione, un trattamento termico moderato e di breve durata, usato per la conservazione del vino. Ritornò anche l'idea di usare il calore per l'invecchiamento, anche perchè ci fu un altissimo interesse a trovare vie molto più veloci ed economiche rispetto ai lunghi tempi ed ai costi elevati del passaggio in botti di legno (che in quel periodo infatti andarono un po' in disuso).

Il calore ha un effetto conservante perché elimina i microrganismi e le proteine (gli enzimi) che possono causare le alterazioni del vino. Se al calore si aggiunge l'esposizione più o meno controllata all'ossigeno, si ha anche un effetto di invecchiamento, che viene favorito e velocizzato dall'alta temperatura. Ricordo che alla base dell'invecchiamento del vino c'è sempre un processo di ossidazione. Quando è molto spinto, si hanno vini dal gusto palesemente ossidato. Se minimale, porta a trasformazioni più fini ed eleganti.

Numerosi studi cercarono di definire dei protocolli per un invecchiamento rapido ottimale, definendo i cicli di calore ed i tempi di trattamento. Le temperature erano comprese fra i 40° e gli 80°C, cercando di tenerle il più basse possibile per evitare che il vino prendesse un gusto di "cotto".  Si dimostrò, come già sapevano gli antichi, che questa proceduta era attuabile solo con vini di alta gradazione alcolica, di una certa potenza e buona acidità, mentre quelli meno intensi ne erano completamente rovinati. I Romani erano citati solo fugacemente, ma vennero usati diversi sistemi che riconducono ai loro, come stufe per il riscaldamento dell'ambiente o per il bagnomaria delle bottiglie, oltre che l'esposizione al sole. Si assiste anche all'ideazione di macchinari industriali per il riscaldamento in continuo del vino, detti enotermi, per trattare produzioni anche molto consistenti. Vennero studiati anche sistemi che prevedevano il passaggio di correnti elettriche nel vino, pratica detta "elettrificazione", ma furono abbandonati abbastanza presto. Al termine di tutti questi trattamenti, il vino era lasciato per qualche altro mese in cantina a riposare, prima della messa in commercio.

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Non ho trovato immagini da testi antichi, ma mi sono imbattuta in questa sul web. La foto è presa da Mas Amiel, azienda del Roussillon, che ripropone vini invecchiati col soleggiamento tradizionale.

Il sistema dell'esposizione al sole era detto all'epoca "soleggiamento". Era alla portata di tutti, il più economico e il meno tecnologico. Era fatto in contenitori di vetro trasparente, bottiglie o (più spesso) damigiane, non riempite completamente e ben tappate, lasciate sotto il sole per diversi periodi. All'epoca si attribuiva grande importanza all'uso di contenitori trasparenti perché si sottolineava l'azione antimicrobica dei raggi solari sul vino. Noi sappiamo che effettivamente i raggi UV possono avere un'azione sterilizzante, ma anche che passano solo in minima parte attraverso il vetro. L'effetto della luce è soprattutto sul colore.

Ad ogni modo, seppure questi sistemi alternativi furono usati per diverso tempo, i risultati furono sempre abbastanza controversi. Non è facile però capire dai testi degli autori dell'epoca cosa intendessero per un "buon invecchiamento". Ad esempio, il prof. Arturo Marescalchi fece delle prove con vino di Freisa e Barbera nel 1894, lasciando un po' di bottiglie al sole di luglio per 12 giorni, alcune esposte alla luce ed altre coperte da un panno nero, oltre che alcune di controllo in cantina. Per lui il migliore era il vino esposto al calore e alla luce, con un colore mattone-aranciato, molto scarico, che oggi sarebbe considerato come poco qualitativo. Alcuni autori dell'epoca parlano proprio di una madeirizzazione (= ossidazione) più o meno intensa, come positiva. Molti altri però reputavano questo invecchiamento come il sintomo di un processo ossidativo troppo intenso, che uniformizza i vini e fa perdere i tratti unici del territorio e delle varietà.

Il prof. Garoglio, negli anni '60 del Novecento, scriveva che la buona riuscita dell'invecchiamento col calore era discutibile e molto casuale. In certi casi si avevano risultati abbastanza apprezzabili, in altri totalmente disastrosi. Al suo tempo era ancora in uso, ma stava andando a sparire. Dagli anni '60-'70 ritornò invece a crescere l'uso dell'invecchiamento in botti di legno, grazie anche alle rinnovate capacità economiche delle aziende vitivinicole. Anche la pastorizzazione ai soli fini conservativi venne sempre più abbandonata per il vino, mentre è rimasta per altri alimenti (come il latte, la birra ed i succhi di frutta). È ancora permessa, forse c'è chi la usa, ma senza troppa pubblicità perché non è considerata una pratica molto qualitativa.

 

I vini di recupero

foto02Nei tempi antichi non si sprecava proprio nulla e si producevano vini di qualità ancora più infima, per i più poveri e gli schiavi. Queste pratiche della vita frugale contadina rimarranno comunque in uso per secoli.

Ad esempio il vino protropo si faceva col mosto che Columella chiama lissivo, cioè quello che scorreva per primo per il peso delle uve che erano accumulate via via nel palmento. Oggi, sarebbe come fare vino con quella “brodaglia” che rimane sul fondo delle cassette dell'uva, soprattutto se sono state un po’ troppo maltrattate.

I vini secondi, detti anche lora, erano quelli che si ottenevano dalle vinacce (che erano già state abbondantemente strizzate) o le fecce (Catone lo chiama vin fecato). Fecce o vinacce erano lasciate a bagno per diversi giorni in acqua. Le vinacce erano poi nuovamente pressate ed il liquido veniva vinificato. Ne uscivano vini molto leggeri, di bassissimo costo, usati spesso per i servi e gli schiavi.

La pratica dei "vinelli" prodotti da vinacce e fecce ripassate è rimasta comune nei secoli. La loro produzione e vendita, per il consumo, fu vietata definitivamente in Italia nel 1925 (regio decreto n.2033 del 15/10/1925), perché generevano molte frodi (era difficile distinguerli dai vini fatti con uva, di scarsa qualità). In questo periodo erano ancora chiamati vini secondi o di ripasso.

Direte, ma chi beveva certi vini?

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Considerate che, fino a non tantissimi decenni fa, bere vino di qualità per piacere, come facciamo oggi, era solo un privilegio da ricchi. Tutti gli altri bevevano vini che andavano da una qualità media a pessima, fino ai vinelli di ripasso.

Nel passato, anche il vino peggiore aveva una sua valenza. Aggiungeva qualche caloria in più a pasti spesso troppo leggeri, oltre che dare un po' più di sapore e un leggero "brio" alcolico. Inoltre, questi vinelli da tutti i giorni erano considerati più salutari del bere solo acqua. Oggi sappiamo perché: anche una bassa gradazione alcolica proteggeva un po' più dalle contaminazioni microbiologiche, che invece nell'acqua erano molto frequenti e rischiose.

 

 

Abbiamo parlato di tanti vini prodotti in antichità, con tecniche che sono arrivate fin quasi ai nostri giorni. Alcuni erano molto buoni, altri così e così, alcuni pesantemente adulterati, altri ancora abbastanza inconsistenti. Che si bevesse per piacere, per salute o per ogni altro motivo, chiudiamo qui il discorso col brindisi romano:

"Bene vos!", "Bene nos!", "Bene te!", "Bene me!"

(Plauto, Stichus, 709)

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

“L’agricoltura di Lucio Giunio Moderato Columella” volgarizzata da Benedetto del Bene, con annotazioni adattate alla moderna agricoltura e con cenni sugli studi agrari d’Italia del cav. Ignazio Cantù, Milano, dalla Tipografia di Giovanni Silvestri, 1850.

“De re rustica”, Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846

“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.

“Il vino nel «Corpus iuris» e nei glossatori”, Cornelia Cogrossi, (2003) In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 499-531.

“Storia dell’agricoltura italiana: l’età antica. Italia Romana” a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002

“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.

“Origini della viticoltura”, Attilio Scienza et al., Atti del Convegno, 2010.

“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883.

“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937.

“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961.

“Il vino nella storia”, Enrico Guagnini, 1981.

Hugh Johnson, “Il vino, storia, tradizioni, cultura”, 1991

Tim Unwin, “Storia del Vino “, 1993

Antonio Saltini, “Storia delle pratiche di cantina, Enologia antica, enologia moderna, un solo vino o bevande incomparabili?”, Rivista di Storia dell’Agricoltura a. XXXVIII, n. 1, giugno 1998

E. Chioffi, “Anfore, archeologia marina”, Egittologia.net

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"Il vino da pasto e da commercio", di Ottavio Ottavi, 1875, Tipologia Sociale del Monferrato, Casale.

"Trattato completo di enologia", di Antonio Sannino, 1914, Stabilimento di Arti Grafiche, Conegliano.

"La nuova enologia" di Pier Giovanni Garoglio, 1963, Istituto d'Industrie Agrarie, Firenze.

 


La vendemmia della vigna Campo Bianco

Campo Bianco è la vigna dove nasce Criseo, una complantazione di 5 varietà bianche: Vermentino, Fiano, Verdicchio, Manzoni Bianco, Petit Manseng. La vigna è raccolta tutta insieme e l'uvaggio è co-fermentato, per originare un vino unico ed "antico".

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È iniziata la vendemmia

Ieri, 15 settembre, abbiamo dato il via ufficiale alla vendemmia 2020.

Fra ieri e oggi abbiamo raccolto la vigna Campo Pietrini, dove c’è il Vermentino, la nostra principale varietà bianca, oltre che la più antica del nostro territorio.
L’uva è bella e sana, per una vendemmia che si sta prospettando molto interessante.
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Orario di apertura autunnale

Le giornate si accorciano e la vendemmia è alle porte, per cui cambiamo i nostri orari di apertura: dal lunedì al sabato, orario 10.00-13.00 15.00-18.00.

Visite e degustazioni sono solo su appuntamento. La domenica sono possibili tour guidati per gruppi di almeno 6 persone.

Vi aspettiamo!


La vinificazione dell'epoca Romana, dove tutto ha avuto inizio I: entriamo in cantina

Eravamo rimasti al gusto del vino romano (vedi qui), poi abbiamo passeggiato a lungo fra le vigne dell'epoca (vedi qui, qui, qui, qui  qui, qui). Entriamo finalmente in cantina.

[one_second][info_box title="" image="" animate=""]Il consumo del vino a Roma: sobrietà o vizio?

Roberto Bompiani, fine XIX sec., "Una festa Romana"
Roberto Bompiani, fine XIX sec., "Una festa Romana"

Nel nostro immaginario spesso associamo il vino dell'epoca romana ai banchetti, con ubriachi in toga che vomitano anche l’anima, complici tanti film o rappresentazioni che esaltano i vizi del mondo antico.

In realtà, è vero che il vino era consumato tanto in epoca romana, ma in genere in modo sobrio. La cultura prevalente era quella che, più o meno, è rimasta in Italia: il vino si beveva quasi esclusivamente ai pasti e senza esagerare, sempre diluito con acqua (per stemperate le alte gradazioni dell'epoca). Le uniche eccezioni, come oggi, erano le feste, i banchetti. Comunque, gli eccessi di certi ricchi non erano certo la norma.

Il vizio dell’ubriachezza, detto temulentia (da temetum la parola più antica per vino in etrusco e latino) era piuttosto mal visto socialmente. Ad esempio, Ottaviano accusò spesso Marco Antonio di amare troppo il vino, utilizzando quest'arma per screditarlo politicamente. Che fosse vero o no, la nomea di ubriacone gli è rimasta appiccicata nella storia.

C'è stata comunque una grande evoluzione del consumo nei secoli. Nelle epoche più antiche il vino non era abbondante, sia perché la produzione era ancora limitata, sia per via del clima più rigido (vedete qui i cambi climatici di epoca romana). Per i Romani più antichi il vino era quindi un bene di lusso, riservato quasi solo ai banchetti, per eventi sociali e religiosi. Col tempo e l'espansione produttiva, verrà introdotto sempre più nei pasti comuni. Seneca racconta che gli avi di solito si concedevano un po’ di vino solo alla fine del pasto e consideravano dei ghiottoni quelli che lo bevevano anche durante.

I coswilliam_bouguereau_030_baccante_1894tumi rigidi della Roma più antica vietavano il vino alle donne. Il vino era associato alla perdita del controllo, quindi al rischio di adulterio da parte della moglie. Ai tempi di Romolo, tale Egnazio Mecenio uccise la moglie a bastonate perché beveva vino e fu addirittura lodato per la "punizione esemplare". Più avanti nella storia di Roma, le donne non rischiavano più la vita solo per un po’ di vino, ma per le signore "per bene" era comunque accettato socialmente solo un consumo moderato. Le cronache giudiziarie riportano, ad esempio, il caso di una donna che venne multata dal giudice, con la perdita della dote, perché aveva bevuto di nascosto più vino "di quanto fosse ritenuto necessario per la salute".

Nel tempo comunque la produzione di vino aumentò sempre più, arrivando a grandi produzioni di vino di bassa qualità per le masse e una piccola élite di vini raffinati per i ricchi, ed i costumi si fecero sempre meno severi. Il consumo di vino divenne la consuetudine a tutti i pasti. Nelle Satire di Varrone (I sec. a.C.) si scherza sul pasto senza vino, chiamandolo “prandium caninum”, il pasto dei cani (che non bevono di certo vino).

Arriviamo quindi all'epoca Imperiale, con gli eccessi celebrati nei tanti film in toga, dei quali Plinio dice di vergognarsi anche dal riferire. Nei casi più estremi, si poteva arrivare ad infilarsi una penna in bocca per indurre il vomito e poter ricominciare a bere e a mangiare.

Durante i banchetti, che non erano necessariamente sempre sfrenati, era uso brindare agli Dei, agli amici, agli innamorati o al potente di turno. C’era anche l'uso del nomem bibere: bere tanti bicchieri quante erano le lettere del nome dell’amata o del potente a cui si dedicava il brindisi.

Plinio riporta anche l’uso di “bere le corone”, cioè gli amanti si scambiavano coppe di vino con dentro i petali delle loro corone di fiori ed erbe. Queste corone vegetali, diventate di uso comune ai banchetti, erano nate dalla credenza che, portandole, avrebbero impedito l'ubriachezza. Nel tempo diventarono anche oggetti di lusso, fatte con i fiori più rari e profumati.

Fra le tante leggende nere che circolavano su Cleopatra, si racconta di quella volta che, offesa da Antonio, provò ad avvelenarlo, offrendogli la coppa con i petali della sua corona, che erano stati intrisi di veleno. All'ultimo però si pentì e lo bloccò, prima del sorso fatale. Per dargli comunque una lezione, fece bere la coppa avvelenata, davanti a lui, ad un condannato a morte.

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Manca pochissimo alla nostra vendemmia e mi sembra quanto mai appropriato tornare a parlare della vinificazione. Lo faccio però andando alle sue origini, dove tutto ha avuto inizio, cioè all'epoca Romana.

Non vi voglio però raccontare per l'ennesima volta delle anfore in terracotta e altre generalità che conosciamo tutti bene, se non per rapidi accenni. Voglio invece entrare veramente in una cantina dell'epoca, con l'occhio del produttore di vino, e capire le loro tecniche, al di là di miti e pregiudizi.

Avrete di certo letto di chi riporta, con perplessità, che aggiungevano durante la vinificazione tante cose strane: acqua di mare, latte, noccioli d'olive, polvere di marmo, farina di piselli selvatici e altro. In realtà queste pratiche, non sono così assurde come possono sembrare, come vi spiegherò poi. Anzi, rappresentano dei primi approcci rudimentali all'enologia che verrà. In questo periodo nascono infatti diverse delle pratiche enologiche che verranno sviluppate in seguito, sia nel bene che nel male, con sofisticazioni dei vini anche eccessive.

In generale, possiamo dire che al loro apice i Romani avevano una produzione di vino tecnicamente curata, come vedrete, tolti quei diversi aspetti che ci sono incomprensibili (soprattutto per la scarsità d'informazioni) e non trascurando i limiti oggettivi dell'epoca. Questo livello produttivo verrà perso nell'Alto Medioevo, con un netto peggioramento della qualità, e verrà riconquistato solo dopo qualche secolo, prima del salto definitivo verso l'enologia moderna.

 

Luci ed ombre

Al momento dell'apice, producevano diverse tipologie di vino: fermi, effervescenti, secchi, dolci, passiti, ... Tutti questi vini erano abbastanza buoni da essere bevuti tal quali, a parte la solita diluizione con acqua (necessaria per stemperate le alte gradazioni dell'epoca, visto che spesso raccoglievano le uve surmature; si tratta comunque di un sistema naturale di conservazione). Non siamo più nelle epoche più antiche, quando le tecniche produttive erano primitive ed i vini erano così "cattivi" da dover essere sempre corretti al momento del servizio con erbe, spezie e miele ed altro (vedete qui), per renderli bevibili. L’addolcimento col miele rimarrà, ma solo per un "cocktail" particolare, detto mulsum, servito come aperitivo. Rimarranno anche i vini alle erbe, per uso medicinale o per piacere, ma erano prodotti specifici.

La produzione di vino romana si è quindi evoluta notevolmente nei secoli, partendo da sistemi primitivi. Lo ha fatto integrando la conoscenza del tempo (gli autori latini citano molte referenze di testi greci, che a noi non sono pervenuti), attraverso la sperimentazione empirica, oltre che una notevole evoluzione tecnologica degli strumenti (di cui ho già raccontato qui, parlando degli Etruschi). I più avanzati torchi romani non cambieranno praticamente più fino al XIX sec.

Il periodo di apice è rappresentato dai testi dei soliti Columella e Plinio (come abbiamo già visto per la parte di viticultura), della seconda metà del I sec. d.C. Questi testi descrivono una produzione del vino accurata, senza però concederci molti dettagli e spiegazioni. Puntano l'attenzione soprattutto sulle pratiche finalizzate al miglioramento dei vini di bassa qualità, la grande massa della produzione. Accennano anche ad una piccola nicchia di vini di grande pregio che, scrivono, non avevano bisogno di nessuna correzione in fase di vinificazione.

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Nel periodo successivo ci saranno solo alcune evoluzioni tecnologiche, come l’invenzione del densimetro, detto allora hydroscopium, uno strumento per valutare la densità dei liquidi. Per quanto ci riguarda, è usato per misurare lo zucchero e l'alcol di mosti e vino (a lato, un disegno di un densimetro più moderno). È citato per la prima volta da Sinesio, in una lettera scritta alla sua maestra Ipazia, a cavallo del IV-V secolo d.C. Sembra però che l’uso comune risalga al VI sec., come racconta il grammatico Prisciano. Questa ed altre conoscenze verranno perse nei secoli successivi. Uno strumento simile verrà di nuovo inventato solo all'inizio del XVII sec.

 

Rimangono comunque diversi aspetti inspiegabili per noi nella produzione del vino dell'epoca romana. Il più eclatante è rappresentato da quei poeti che decantano vini dall’incredibile invecchiamento, anche di centinaia di anni. Considerando che neppure oggi è possibile avere vini così longevi (che restino bevibili e piacevoli), probabilmente erano solo iperboli o licenze poetiche.

Alcuni passaggi importanti della vinificazione sono totalmente omessi nei testi antichi. Ad esempio non sono mai descritte le macerazioni delle bucce. Questo fatto ha tratto in  inganno diversi autori moderni di storia del vino, facendogli scrivere che, all'epoca, si producessero solo vini bianchi. In realtà gli autori latini parlano di un'ampia gamma di colori. Plinio scrive di vino bianco, fulvo (orange wine?), sanguigno (rosso) e nero. Galeno aggiunge anche il rosso pallido (rosato?) ed il pallido, che descrive come una via di mezzo fra il bianco e il fulvo.

Ad ogni modo, i Romani hanno di certo gettato le basi di certe pratiche enologiche, come vedremo, ma non sapevano perché le facevano o perché aggiungevano certe sostanze, non avendo conoscenze chimiche sulle composizioni dei mosti e dei prodotti che utilizzavano. Potevano giusto apprezzarne i risultati finali. L'altro limite insormontabile dell'epoca era l'assoluta ignoranza sulla fermentazione, oltre che sulle alterazioni microbiologiche.

Quindi, potevano essere anche bravi a fare alcuni vini, ma erano sempre in balia della fortuna e del caso. Se qualcosa andava storto, non sapevano porvi rimedio e semplicemente declassavano il vino. Questa fragilità produttiva non appartiene però solo dell'epoca romana, rimarrà molto a lungo. Si inizieranno a capire (e a gestire) questi processi solo con le scoperte di Pasteur sul ruolo dei microorganismi nella produzione enologica, ma dovremo aspettare fino alla seconda metà del XIX secolo. (Se vi interessa scoprire il lungo ma affascinante percorso che ha portato alla comprensione del processo della fermentazione, vi invito a leggere questa mia serie di post, qui, qui, qui, qui).

Infine, non dimentichiamo che, come in ogni epoca passata, coesistevano diverse realtà: le cantine più ricche e dotate degli strumenti più all'avanguardia, quelle (di ogni dimensione) gestite da persone istruite o comunque esperte, fino ai tanti contadini che continuavano a fare il vino in modo molto primitivo.

 

Alcuni concetti-chiave

I Romani avevano già raggiunto una certa consapevolezza riguardo alcuni concetti chiave della produzione del vino, che verranno recuperati solo secoli dopo la fine dell'era antica.

Primo fra tutti, c'è l’importanza della pulizia. Di certo non sapevano dell'esistenza dei microorganismi, non avevano i nostri prodotti sanificanti, l’acqua corrente nelle cantine e tante altre cose. Avevano però intuito quanto fosse importante pulire tutto per bene. La cura e la perfetta pulizia di ogni contenitore ed attrezzo, prima e dopo ogni uso, è una “mania” per gli autori romani, fin dai tempi più antichi di Catone. Tale modo di operare verrà recuperato, in epoca moderna, solo abbastanza recentemente. La pulizia dei contenitori del vino era facilitata dal rivestimento interno fatto con resina vegetale, rinnovata ad ogni uso, dopo aver raschiato a fondo quella vecchia. Raccomandavano anche di ripulirli attentamente da ogni odore residuo. In una cantina di Stabia, trovata totalmente integra dall’archeologo Fiorelli a fine Settecento, il locale di lavorazione delle uve era rivestito sul pavimento e sulle pareti da un materiale fatto da mattoni triturati e calcina, fino a circa un metro e ottanta d’altezza, col limite segnato da una riga rossa. La calce è il sistema più antico per igienizzare le pareti soggette ad umidità. La sua alcalinità evita lo sviluppo di muffe ed altri microrganismi.

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Avevano intuito anche l’importanza della temperatura nel corso della vinificazione. Columella consiglia di portare i contenitori vinari in luoghi caldi o freddi a seconda della necessità o di avere dolii in posizioni diverse. Scrive che, se toccando il dolio si sente salire troppo la temperatura, sicuramente non si avrà una buona vinificazione. Oggi sappiamo che i lieviti fermentativi agiscono bene a determinate temperature. Soprattutto quelle troppo alte possono compromettere il processo. In una cantina di Pompei è stato trovato un sistema ingegnoso per raffreddare le anfore vinarie. Queste era appoggiate ad un’intercapedine in argilla nella quale veniva fatta scorrere acqua fresca. Nella descrizione della produzione di vini spumanti dolci, si legge che le anfore, ben sigillate, erano trasferite ad un certo punto in vasche d’acqua fredda (per bloccare la fermentazione e lasciare un residuo zuccherino). Come ancora oggi, il freddo era un'alleato dei cantinieri per favorire i processi di sedimentazione e poi travaso dei vini. Nei testi tardo-antichi, si sottolinea l'importanza di realizzare le cantine in modo che siano sempre fresche. Se così non era, in passato bisognava sfruttare i cambi stagionali per fare certe operazioni. Per questo motivo spesso gli autori antichi legano certe pratiche a determinate costellazioni (o altro): non è una questione di astrologia, ma il loro modo per indicare il momento stagionale più opportuno.

Avevano anche capito i rischi dell'ossidazione (per loro una generica alterazione). Infatti gli autori scrivono di evitare di esporre il vino all’aria, soprattutto a temperature calde. Nella descrizione di ogni passaggio di cantina, gli autori insistono molto sul fatto di avere sempre i contenitori accuratamente rivestiti internamente (con resine vegetali) e sigillati.

 

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La cantina e la vinificazione

La produzione del vino non era così diversa da quella di una qualunque cantina del passato, almeno fino al XIX sec., salvo che per i contenitori.

L’uva era pigiata coi piedi nei palmenti. Le vinacce o i grappoli interi (chiusi dentro a cestelli in vimini o altro materiale) erano pressati nei torchi. Come sappiamo, i principali vasi vinari, dove il vino completava la fermentazione, erano dei grossi contenitori in terracotta, rivestiti internamente con pece vegetale, parzialmente o completamente interrati, detti dolii (dolium al singolare). Il loro nome più antico era calpar, già non più in uso ai tempi di Varrone (I sec. a.C.). Esistevano anche vasche chiuse in muratura, anche se meno diffuse.

A cosa serviva l'impeciatura dei contenitori vinari? Si trattava di un rivestimento interno fatto con resine di origine vegetale, che sono sostante di diversa natura prodotte da numerose piante, a volte in seguito a ferite o attacchi parassitari, per cui è spesso anche un antisettico naturale. Da migliaia di anni sono state usate per gli usi più disparati, prima dell'introduzione delle resine o altri materiali sintetici. Spesso sono anche aromatiche e non sappiamo quanto questo rivestimento influisse o meno sul gusto del vino. Sicuramente serviva a rendere questi contenitori il più possibile inerti, come cerchiamo di fare anche oggi. Il rivestimento in resina sigilla la porosità delle anfore, contro i rischi dell’ossidazione e le rende perfettamente impermeabili ai liquidi. Inoltre garantisce una certa pulizia, contro il rischio di contaminazioni microbiologiche, visto che dopo ogni uso i vasi erano accuratamente raschiati dallo strato di resina vecchio e di nuovo rivestiti.
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Durante la vinificazione, ritenevano importante la valutazione della schiuma che si forma sul liquido, per capire se la fermentazione stesse procedendo bene o no. In particolare, descrivono una delle alterazioni più comuni del vino (fino a non tanto tempo fa), la fioretta. La descrivono come una velatura chiara, come una tela di ragno sulla superficie del vino. Il vino così alterato diventava insipido e piatto, con spunto acetico o proprio acetificazione. Può succedere soprattutto per vini a bassa gradazione alcolica che restano troppo in contatto con l'ossigeno. Dipende dallo sviluppo di diverse specie di batteri aerobi.

I vini venivano lasciati riposare dopo la vinificazione e, nel mese di maggio, li travasavano in nuovi vasi impeciati. Durante questo passaggio avveniva la sfecciatura. Era il momento finale per classificare la qualità del prodotto, tramite l'assaggio. Veniva ritenuta molto importante l’acidità. Se era troppo scarsa, non lo si considerava un buon segno per la conservabilità e la qualità in generale del vino (come sappiamo bene anche oggi).

2ad699523a72a2e0e3627f59c3641935Il vino di bassa qualità o da bere giovane era in genere messo dentro a nuovi dolii (vinum doliare), ben chiusi, da dove era prelevato di volta in volta per la vendita o il consumo. Da qui era travasato in brocche e vasi di diverso materiale. Per il trasporto via terra, poteva essere messo anche in un grande otre in pelle, detto culleus o uter vini, posizionato su un carro.

Quello migliore, era invece travasato in anfore e per questo era detto vino anphorariarum. Qui era conservato, invecchiato e trasportato. Le anfore erano sempre impeciate, accuratamente chiuse con tappi in sughero, sigillati con resina, argilla o gesso. Erano identificate da una nota, cioè una scritta a pennello fatta sull'anfora o su una pergamena o una striscia di cuoio. Questa specie di etichetta era detta pittacium. Riportava la tipologia (ad esempio, l'abbreviazione rubr. stava per vino rosso), il luogo di provenienza e l’anno in cui era stato riposto. Soprattutto dal II secolo d.C. in poi, il vino poteva anche essere messo, per la conservazione ed il trasporto, in barili di legno (cupa), ed era detto vinum de cupa. Già Plinio li descrive, nella seconda metà del I sec. a.C., come tipici della zona delle Alpi.

Per spostare i liquidi (mosto e vino) da un contenitore all'altro, si usavano lunghi sifoni, oppure contenitori di trasporto più piccoli (anfore o altro). In cantine più all'avanguardia, come in una trovata a Stabia, il palmento aveva il pavimento inclinato verso un canale di scolo, dove si potevano inserire dei tubi (fistole) in piombo, che portavano il vino nei dolii sfruttando la pendenza. Per assaggiare il vino, si usava uno strumento detto aulon sysetera, fatto in vetro, simile agli alzavino (o pipetta) usati ancora oggi per prelevare piccoli campioni d’assaggio dalle botti.

Per eliminare torbidi e fecce, usavano i sistemi in uso da sempre nelle cantine, cioè i travasi, dopo aver lasciato sedimentare il torbido sul fondo. Per la pulizia e filtrazione dei vini, gli autori ci parlano di un colum o saccus vinarius, un cesto o colatoio fatto in vimini, stuoia o giunchi, a forma di cono (sotto, uno simile ottocentesco).

 

CONTINUA... (qui) con l'approfondimento delle pratiche enologiche.

 

BIBLIOGRAFIA

fine ottocento filtrazione per vini bianchi soprattutto in uso in Toscana somo le cole da vino cioè sacchi di cotone conici

“De re rustica”, Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846

Luigi Manzi “La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, 1883

Dalmasso e Marescalchi, “Storia della vite e del vino in Italia”, 1931-1933-1937

Emilio Sereni, “Storia del paesaggio agrario italiano”, 1961

Enrico Guagnini, “il vino nella storia”, 1981

Hugh Johnson, “Il vino, storia, tradizioni, cultura”, 1991

Tim Unwin, “Storia del Vino “, 1993

Antonio Saltini, “Storia delle pratiche di cantina, Enologia antica, enologia moderna, un solo vino o bevande incomparabili?”, Rivista di Storia dell’Agricoltura a. XXXVIII, n. 1, giugno 1998

E. Chioffi, “Anfore, archeologia marina”, Egittologia.net

“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.

“Storia dell’agricoltura italiana: l’età antica. Italia Romana” a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002

“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.

 


L’uva non ama la tintarella

In agosto amiamo il mare, cerchiamo il sole, l’abbronzatura. Noi possiamo proteggerci con una buona protezione solare ma l’uva no. Non ama la tintarella o, meglio, l’esposizione diretta ai cocenti raggi solari, che qui da noi (sulla costa toscana) sono particolarmente intensi.

In questo periodo così importante di maturazione delle uve, noi vignaioli valutiamo anche l’esposizione del grappolo. Decidiamo se vale la pena fare la defogliazione, cioè togliere alcune foglie intorno al frutto, quanto farla, oppure se proprio evitarla.

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In generale l’uva sta bene un poco coperta da foglie, tuttavia dipende molto dal clima e dalla situazione particolare. Soprattutto nei climi caldi e con intensa radiazione solare, come a Bolgheri (e per buona parte del centro e del sud), se troppo esposta potrebbe andare incontro ad alterazioni anche serie.

 

 

La defogliazione (o sfogliatura).
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Le muffe ed i marciumi dei grappoli (nella foto: muffa grigia) sono un grande danno per il vignaiolo. L'uva così danneggiata è persa. Esistono dei prodotti antimuffa, ma non sono sostenibili. Queste malattie sono un rischio per i territori con un clima tendenzialmente umido in agosto e in autunno. Nei climi secchi sono un problema solo eccezionalmente, in annate particolari. L'unica difesa del vignaiolo è la prevenzione, che si fa con la sfogliatura, ma non solo. I microorganismi responsabili di muffe e marciumi del grappolo entrano nell'acino se trovano micro-fessure nella buccia, causate da altri parassiti o malattie o rotture varie (per squilibri produttivi, colpi accidentali, grandine, ecc.). Funziona come prevenzione, quindi, anche aver gestito bene la vigna fino a qui, per gli equilibri delle viti, oltre che aver fatto una difesa ottimale.

Nei territori più freschi e soprattutto umidi, la defogliazione nelle ultime fasi (dall’invaitura a poche settimane dalla vendemmia) è spesso necessaria. Togliere un po’ di vegetazione serve ad evitare ristagni di umidità, micro-condizioni che possono favorire i terribili marciumi e le muffe del grappolo, con la conseguente perdita dell’uva. Questa necessità può esserci anche da noi, eccezionalmente, nelle annate particolarmente umide.

Di norma comunque una vite in equilibrio non richiede la sfogliatura. Gli studiosi ci danno dei parametri: una copertura fino a circa il 40%-50% dei grappoli va bene, non deve essere eliminata.

Se però la vite è troppo rigogliosa e l’eccesso di foglie scherma completamente i grappoli, la defogliazione può essere favorevole, soprattutto negli ambienti non troppo caldi. In questo caso si è visto (con prove sperimentali) che l’alleggerimento della vegetazione e la migliore esposizione migliorano la maturazione (favoriscono l’aumento degli zuccheri, aumenta il colore, ci sono più aromi primari, meno acidità, un miglior accumulo dei composti fenolici).

Se si decide che è il caso di sfogliare, si deve però anche capire quanto e come togliere, per cui è un lavoro che dovrebbe essere fatto a mano solo da persone esperte, in grado di decidere vite per vite. Spesso il rischio è di togliere troppo.

Le foglie non vanno scelte a caso. Si tolgono principalmente quelle basali, cioè che stanno sotto il grappolo. Sono le più vecchie ma anche quelle non direttamente implicate nella fotosintesi a favore del grappolo in maturazione. Questo ruolo è invece svolto dalle foglie che stanno sopra al frutto, che sarebbe meglio eleminare il meno possibile, salvo quelle veramente troppo ombreggianti.

In generale, è sempre meglio comunque non togliere troppe foglie, altrimenti si limita la capacità di fotosintesi della pianta e, quindi, la qualità dell’uva. Quanto deve essere estesa la chioma? Dipende da tanti fattori: dal clima, dall’intensità della radiazione solare, dalla varietà (ad esempio, influisce anche la dimensione del grappolo), il sistema di allevamento, …

 

 

L’eccesso di luce e calore

Nel nostro territorio, se le viti sono in equilibrio, come detto, per lo più evitiamo la sfogliatura: non si hanno quasi mai rischi fitosanitari legati all’umidità, se non in annate particolari. In particolare, vogliamo evitare i danni da eccesso di luce e calore.

Sono stati fatti numerosi studi che hanno dimostrato che, in territori caldi e con intensa radiazione solare, la situazione ottimale per l’uva in maturazione è un microambiente in cui il grappolo riceve luce diffusa, con alcuni lampi di luce che si infiltrano da diverse direzioni fra la vegetazione.

In questi climi non si ha paura dello scarso accumulo delle varie componenti dell’uva. Al contrario, si rischiano più facilmente concentrazioni zuccherine troppo alte, che portano a tenori alcolici troppo elevati, aromi poco eleganti e scarso colore.

Il caldo eccessivo e la siccità, per acini esposti direttamente alla luce solare, possono portare anche a danni gravi. Si possono avere fenomeni di disidratazione degli acini, con la sintesi di aromi poco piacevoli (come di “cotto”), la degradazione di alcuni precursori aromatici, fino a delle vere e proprie scottature, che causano l’imbrunimento e la necrosi dei tessuti del frutto.

foto da Edagricole: grappolo di Sangiovese con acini scottati e disidratati
foto da Edagricole: grappolo di Sangiovese con acini scottati e disidratati

Questi danni gravi accadono più spesso a quei grappoli che si sono sviluppati in situazione di luce diffusa e che vengono esposti di colpo alla luce solare. Può succedere per colpa del vignaiolo, che sbaglia qualcosa nella gestione della chioma, ma anche per eventi non voluti (ad esempio la caduta delle foglie per attacchi parassitari, grandine, ecc.).

Il problema non è solo la luce diretta ma anche la temperatura, che ha un ruolo rilevante nella maturazione, soprattutto sul colore e gli aromi, e può diventare eccessiva per i grappoli non sufficientemente protetti dalle foglie. Gli studi hanno dimostrato che temperature estive di 35°-40°C (e oltre) possono inibire la sintesi degli antociani (il colore delle uve rosse) ma anche degradare i pigmenti che sono già stati prodotti. Le alte temperature sembrano causare anche una degradazione dei precursori aromatici (ad es. i carotenoidi), cioè quelle sostanze che non sono aromatiche nelle uve ma lo diventeranno nel corso della vinificazione. Elevate escursioni termiche fra il giorno e la notte, come succede a Bolgheri (soprattutto fra le colline), possono però riequilibrare in modo ottimale anche certi eccessi di calore diurno.

La natura ci dona tanto, ma solo un continuo buon lavoro in vigna permette una maturazione ottimale delle uve. Nonostante ciò, può succedere che qualche singolo grappolo possa sfuggire alla protezione delle foglie di una chioma gestita in modo ottimale. Sarà allora nostra cura non raccoglierlo, con la selezione in fase di vendemmia, come facciamo per ogni acino che non sia più che perfetto.


Cambiamenti climatici, leggi e vendemmie: gli ultimi passi nelle vigne italiane al tempo dei Romani.

(continua da qui)

Concludiamo questo nostro  viaggio nella viticoltura italiana dell'epoca Romana con gli ultimi lavori della vigna e la vendemmia.

Prima però vorrei completare il quadro dell'epoca con la descrizione del clima di allora. Spesso non ci si pensa, ma i mutamenti climatici hanno avuto grande importanza negli eventi storici dell'umanità, a maggior ragione per quanto riguarda l'evoluzione dell'agricoltura.

oni – 1350 d.C. Il clima è freddo con oscillazioni a fresco/umido e mite. Le aree coltivate si riducono a favore del bosco, delle sodaglie, delle terre a pascolo e delle paludi. Durante il basso medioevo imperversa una grave crisi demografica: tra l’inizio del XIV e la metà del XV la popolazione italiana scende da a 7-8 milioni, forse meno – 1550 d.C. Il clima è fresco. In Italia si passa dal basso medioevo al Rinascimento – 1850 d.C. Piccola Era Glaciale (LIA). Il clima molto freddo (fino a 2 °C sotto la media) e instabile favorisce il ripetersi di carestie ed epidemie. I ghiacciai su tutta l Europa avanzano, il limite altimetrico del bosco nelle aree montane si abbassa, le precipitazioni e la portata dei fiumi aumentano dando luogo a una dilatazione delle zone umide. Ne consegue un generale peggioramento delle condizioni di vita soprattutto nelle aree montane d.C. – presente. Il clima è caldo. Il progressivo aumento delle temperature (con una temporanea inversione di tendenza tra il 1940 e il 1975) provoca un nuovo regresso dei ghiacciai e un innalzamento del livello marino. Ricostruzioni di sintesi della temperatura durante l’Olocene (iniziato convenzionalmente circa anni fa).

La fondazione di Roma (753 a.C.) cadde in un periodo di piccola era glaciale (nel grafico, il primo picco discendente colorato in blu), durato circa dal 900 al 300 a.C. Questo significa che, nei primi secoli dell'epoca Romana, l'Italia aveva un clima decisamente più freddo di quello a cui siamo abituati oggi. Nel grafico a lato si vedono le temperature medie annuali dall'Era Glaciale ad oggi. La linea verticale in fondo rappresenta il nostro periodo.

Numerosi autori romani testimoniano i terribili inverni di quei periodi. Columella e Giovenale raccontano che all'inizio del IV secolo a.C. gli inverni erano così rigidi che il Tevere era incrostato di ghiaccio. I boschi del Lazio e dell'Etruria erano costantemente ricoperti di neve. L'inverno del 399-400 a.C. rimase nella storia di Roma per via di un'incredibile nevicata. Caddero più di 2 metri di neve (7 piedi) ed i crolli di alberi e tetti in tutta la città causarono numerosi morti e feriti. Varrone racconta di inverni lunghissimi nelle montagne italiane. Sant'Agostino riporta che, ancora nell'inverno del 275 a.C., il Tevere gelò e Roma rimase sotto la neve per 40 giorni.

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Come possiamo immaginarci la viticoltura di quel periodo? Non abbiamo molte indicazioni a prosito. Possiamo pensare che era presente soprattutto nelle aree più miti, come le coste o altre zone favorevoli, fino ad altitudini non molto elevate.

Dopo di che il clima si avviò ad un notevole cambiamento, con la risalita delle temperature, fino ad arrivare al momento detto dell'Optimum Climatico Romano, un periodo piuttosto caldo. Durò circa dal 250 a.C. al 400 d.C. e interessò in modo locale l'Europa e l'Atlantico settentrionale. Il passaggio climatico verso temperature più alte corrisponde con l'espansione di Roma nel Mediterraneo. In antichità, infatti, si navigava solo nelle stagioni favorevoli ed il clima migliore permise periodi di navigazione più lunghi. Corrisponde anche all'aumento esponenziale della viticoltura italiana. Il clima più caldo ne permise l'espansione anche in aree prima non favorevoli. Iniziò così anche l'esportazione massiccia del vino.

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L'aumento delle temperature determinò, in generale, lo spostamento verso nord della linea delle coltivazioni mediterranee, come l'ulivo. Plinio scrive che il faggio, che prima arrivava solo all'altezza di Roma, spinse il suo habitat fino al nord d'Italia. Il periodo caldo favorì poi la diffusione della viticoltura da parte dei Romani in buona parte d'Europa, anche nei territori che non avevano mai visto prima la vite. La portarono fino in Inghilterra, oltre che a notevoli altitudini. Da molte di queste zone estreme sparirà con la successiva Piccola Era Glaciale.

Dal 400 circa iniziò invece un periodo di raffreddamento. Secondo diversi studiosi, l'instabilità ed i peggioramenti climatici, con le conseguenze sull'agricoltura e la salute della popolazione, contribuirono alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente.

 

Non si sa esattamente quanto l'attività umana di allora potesse aver influito sulle evoluzioni climatiche. Sappiamo però che l'epoca Romana ha registrato i primi interventi massicci dell'uomo sulla trasformazione del paesaggio naturale italiano.

In epoca pre-romana l'Italia era fatta di immense distese di boschi, interrotti da aree paludose nelle zone costiere o nelle pianure. Solo una piccolissima parte era occupata dall'agricoltura, ristretta intorno alle colonie della Magna Grecia al sud o le città-stato dell'Italia centrale.

Ad esempio la vasta area fra Aquileia, Ravenna, Mantova, Brescia, Reggio e Como era tutta paludosa. Le coste adriatiche, tirreniche e liguri erano ricoperte da fitte foreste, dalle quali si prelevava legname considerato pregiato per la grossezza dei tronchi. Gli stessi colli di Roma, come il Palatino o il Quirinale, erano ricoperti da boschi. Fra Modena e Bologna le foreste era ancora così fitte in epoca Repubblicana da rallentare notevolmente i lavori di costruzione della via Emilia. Tito Livio racconta che la foresta del Cimino, in Etruria, era così terrificante da superare quelle germaniche descritte da Tacito. La Gallia Cisalpina (nord d'Italia) era ricchissima di querce, infatti fu il principale centro di allevamento dei maiali dell'impero. Il Gargano, in Puglia, era ricoperto da querce ed altri alberi che arrivavano fino al mare.

[one_second][info_box title="La vigna prima ancora della legge" image="" animate=""]

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«Sed etiam a vinea, et balneo, et theatro nemo dubitat
in ius vocari licere».

(Gaius, Liber I ad Legem XII Tabularum)

"Non è consentito chiamare in giudizio (e portare in tribunale) chi si trovi nella vigna, al bagno (le terme) o a teatro".

Questa sententia citata dal giurista Gaius, compresa nelle leggi scritte più antiche di Roma, le Leggi delle XII Tavole (Lex XII Tabularum, 450 a.C.), dimostra quanto fossero considerati importanti i lavori in vigna nelle epoche più antiche di Roma, al punto da far sospendere anche un procedimento giudiziario. Bisognava aspettare che il vignaiolo avesse finito il suo lavoro.

In generale l'importanza della viticoltura a Roma si può capire dal grande numero di leggi che la riguardavano, rispetto alle successioni, le compravendite, i legati, ecc.  Nei contratti agrari veniva sempre riconosciuto l'aumento del valore di un terreno nel quale era statto fatto un vigneto. In caso di risoluzione anticipata del contratto di affitto, anche per morosità, il proprietario doveva comunque indennizzare il fittavolo che vi aveva impiantato viti.

Numerose sono anche le cause giudiziarie che riguardano la vigna, che ci offrono siparietti non sempre edificanti della vita dell'epoca. Ad esempio, il giurista Sesto Pomponio racconta di un tale che, approfittando del grande rigoglio delle viti (alberate) del vicino, raccoglieva i frutti dai tralci che si allungavano fin sugli alberi della sua proprietà e ne traeva profitto. Ad un certo punto il proprietario delle viti se ne accorse e volle tagliare quei tralci. Il tale si oppose al taglio, arrivando a far causa al vicino per impedirglielo. Il tribunale gli diede però torto, ribadendo che i rami appartengono sempre al proprietario del terreno dove le viti sono piantate, ovunque essi arrivino.

Nella Roma antica comparve anche il primo esempio nella storia di intervento del governo per regolamentare l'impianto delle vigne e, quindi, il mercato del vino. Si tratta del famoso editto di Domiziano che, nel 92 d.C., vietò l'impianto di nuove vigne e introdusse l'obbligo di espianto di metà di quelle delle province. Secondo alcuni studiosi, l'editto nacque in un momento di stagnazione generale del commercio del vino. In particolare, i patrizi romani, che erano produttori di vino, non volevano subire la concorrenza esterna. Già Cicerone aveva intenti protezionistici quando scriveva nel De Re Pubblica (55-51 a.C.): «Noi non permettiamo che i popoli Transalpini coltivino l'olivo e la vite, perché si mantengano superiori la nostra olivicoltura e viticoltura». Secondo altri, l'editto nacque anche dalla volontà di frenare l'eccessiva espanzione delle vigne che stava avvenendo in quel periodo, per evitare carestie per mancanza di grano.

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Questa litografia francese dell'Ottocento (da "Les mervielles de l'industrie moderne", Louis Figuer, 1875) rappresenta la scena idealizzata della distruzione di vigne in Gallia, a seguito dell'editto di Domiziano, da parte di centurioni romani. In realtà non si sa se la distruzione ci fu veramente e fino a che punto si spinse. Sicuramente ci fu uno stallo della viticoltura europea, fino all'abrogazione di Probo.

La successiva decadenza della viticoltura in Italia fece sparire il divieto e, viceversa, diversi imperatori si impegnarono per arginare questo fenomeno. Ad esempio, Aureliano, intorno al 275 d.C., distribuì gratuitamente schiavi ai proprietari terrieri, dall'Etruria fino alle Alpi Marittime, perchè ampliassero le vigne sempre più abbandonate.

Invece il divieto di creare nuovi vigneti fuori dall'Italia fu abrogato da Probo, verso la fine del III sec. d.C.. Probo permise finalmente «a tutti i Galli ed a tutti gli Spagnoli e persino ai Britanni di coltivare le viti e di fare il vino», e di «possedere le vigne ai Galli e ai Pannoni» (Historiae Aug. Probus, 18,8). Egli introdusse anche delle corvéé per i centurioni romani, dedicate spessoanche all'impianto di vigne, come accadde in Germania, che fino ad allora ne era priva.

 

Theod1Sul finire dell'era antica, la viticoltura italiana era in forte decadenza anche perché era oppressa dalla burocrazia e da tasse sempre più asfissianti. Cassiodoro racconta che i produttori arrivavano al punto di tagliare le proprie viti per sottrarsi ad imposizioni fiscali insostenibili. Nell'codice teodosiano del 413 d.C. è scritto che si condannava alla pena di morte e alla confisca dei beni chi avesse tagliato le viti per sfuggire al fisco:

"Si quis sacrilega vitem falce succiderit, ..." 

Se qualcuno avesse abbattuto la vite con falce profanatrice ..." Cod. Theod. l. XIII. Tit. XI. leg. 1.

Si ritornerà a parlare di leggi intorno alla vigna con i Longobardi.  [/info_box][/one_second]

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Questi boschi erano stati usati dall'uomo da sempre ma, in epoca Romana, la popolazione aumentò notevolmente rispetto al passato e così anche le applicazioni tecniche. L'uso del legname divenne massiccio, usato come combustibile ma soprattutto per l'edilizia in notevole espansione e la costruzione delle grandi flotte navali romane, ...

Così nei secoli i Romani disboscarono buona parte della penisola, anche per far sempre più spazio ai terreni agricoli e ai pascoli. Rispetto ad oggi, comunque, rimaneva ancora una buona parte di natura incontaminata.

In epoca arcaica, Anco Marzio aveva messo il patrimonio boschivo sotto la tutela degli Dei e dei magistrati decemvirali, dichiarandolo Demanio Pubblico Naturale. Più che una tutela, probabilmente, era solo una questione economica: una parte importante del reddito pubblico derivava proprio dalla gestione di questo patrimonio. Comunque sappiamo che gli stessi Romani si accorsero del degrado che derivò dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Ce lo raccontano Plinio ed altri autori, che parlano di frane, alluvioni, erosioni, carenze idriche e problemi agricoli, riconoscendo dietro ad essi la mano dell'uomo.

 

Torniamo però agli ultimi lavori della vigna.

 

 

Potatura verde

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Gli autori agrari romani raccontano dei diversi lavori compresi sotto la dicitura di "potatura verde", all'epoca detta vites pampinari. Per Varrone è anche più importante della potatura invernale e deve essere fatta solo da persone esperte. Già Catone cita i lavori di spollonatura , legatura e sfogliatura. Columella aggiunge anche la cimatura ed il diradamento dei grappoli, completando l'insieme dei lavori, come ai nostri giorni.

Per spollonare usavano i cultelli minores, piccoli coltelli ricurvi. I tralci delle viti erano legati perché non venissero rotti dagli attrezzi e dagli animali durante il passaggio, facendo attenzione ad indirizzarli verso l'alto. Queste scelte erano fatte senza conoscere la fisiologia delle viti, come oggi. Era un sapere empirico, nato dall'osservazione attenta e razionale della risposta delle piante ai lavori fatti in diverso modo.

Ad agosto, spiega Columella, si tolgono le foglie intorno ai frutti nei territori dove il clima è più fresco e piovoso, per evitare di far marcire i grappoli. Consiglia invece di non farlo nei luoghi caldi, come facciamo ancora oggi. Racconta anche che nelle zone dal clima torrido si ombreggiassero le viti con delle stuoie, come faceva suo zio Marco in Betica (sud della Spagna).

 

 

Lavorazione del suolo
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Anche la lavorazione del suolo e l'estirpazione dalle erbacce era importante allora come oggi. L’operazione era chiamata fossio e chi la faceva fossor.  Virgilio usa il verbo jactare.

Dove era possibile, era sempre fatto con l’aratro tirato dai buoi. Dove non si poteva usare l’aratro, si lavorava con la vanga semplice (pala o ligo) o col bipalium (una vanga con sbarra trasversale, che scava a profondità doppia di quella comune). La marra era una zappa a testa larga e dentata. Il rastrum era uno strumento sempre dentato, così come il sarculum, tutti diversi tipi di rastrelli. L’irpex era un pesante rastrello tirato da buoi, come gli erpici moderni.

Gli autori latini consigliano di zappare la vigna almeno tre volte all'anno: uno quando germoglia, l'altro alla fioritura e il terzo per la maturazione. Le giovani vigne devono essere sempre accuratamente vangate per togliere tutte le erbacce. Questi lavori sono essenziali anche oggi, anche se fatti in modo diverso, essenzialmente per togliere la vegetazione a ridosso della vite ed per evitare competizioni sfavorevoli in momenti delicati della vita della pianta.

Un altro lavoro era quello di scalzare le viti (ablaqueare o circumfodere) con la dolabra e la dolabella, che erano delle piccole asce. All'epoca di Palladio si diceva excodicari: si apriva la terra intorno alla vite e si tagliavano le radici più superficiali. Poi si rincalzava la terra intorno alle viti nel periodo freddo, nei territori dal clima più fresco. Questo lavoro tradizionale oggi non viene praticamente più fatto.

 

Vendemmia

La raccolta dell'uva era un evento legato a pratiche religiose, dedicate principalmente a Giove, come già descritto qui, ed altre superstiziose. Le festività Vinalia Rustica si svolgevano il 19 agosto e servivano a propiziare il bel tempo durante la maturazione dell’uva. Durante le feste i vendemmiatori poteva fare scherzi di ogni tipo, anche offendendo i passanti, senza che questi potessero reagire. Cicerone parla delle Auguratio Vineta, pratiche augurali prima della vendemmia. Il via ufficiale alla raccolta era dato invece dalla festa della Auspicatio Vindemiae, con un rito officiato dal Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove. Egli raccoglieva un grappolo primiziale in una vigna pubblica e lo offriva al dio, compiendo un sacrificio animale. Il gesto doveva garantire un buon raccolto. La data della festa variava ogni anno, in relazione al periodo della vendemmia. Plinio il Vecchio cita invece un rituale magico usato per scongiurare il mal tempo: si metteva un grappolo d’uva finto nella vigna e questo avrebbe dovuto attirare a sé i danni, risparmiando il resto.

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Columella scrive invece della ricerca di metodi razionali per decidere il momento ideale della raccolta. Egli passa in esame i sistemi proposti da diversi autori, come la valutazione della mollezza dell'acino, del colore e della lucidità del frutto, addirittura dal cadere delle foglie. Questo non deve stupire però, anche perchè all'epoca spesso si facevano quelle che oggi noi chiamiamo "vendemmie tardive". Tuttavia per lui non sono sistemi sicuri, perchè possono dipendere anche da altre cause oltre che la maturità, come le intemperie dell'annata o altro. C'è chi assaggia l'uva ma anche questo metodo può essere frutto di inganno per Columella, perchè dice che non sempre si riesce a cogliere bene il rapporto fra dolcezza ed acidità, soprattutto per le varietà più aspre.

Secondo Columella, il sistema migliore e senza possibilità di sbagli è valutare il colore dei vinaccioli:

La cosa migliore, come io stesso uso fare, è osservare la maturazione naturale di per sé.  Ora, la maturità naturale si ha se, spremuti i vinaccioli, i quali si nascondono nell’acino, essi sono scuri di colore o alcuni nerissimi. Nessuna cosa, infatti, può dare colore ai vinaccioli se non il raggiungimento della maturità naturale …” (De Re Rustica”).

httpwww.wining.itIn effetti i vinaccioli sono un buon segnale della maturazione dell'uva. Al momento dell'invaiatura (il momento di cambio di colore degli acini), i semi da verdi diventano giallognoli o marroncini, a seconda della varietà, poi diventano sempre più scuri. Si tratta di un parametro oggettivo, sufficientemente buono per il passato e rimasto in uso per secoli. Non è però precisissimo. Infatti, diventa sempre più difficile valutare le diverse gradazioni di marrone nelle fasi finali. Oggi, per decidere il momento perfetto per la vendemmia, valutiamo un insieme di diversi parametri (vedete qui). I vinaccioli completano le informazioni necessarie, soprattutto assaggiandoli e valutando la maturazione dei tannini.

Un altro sistema consigliato in epoca antica consisteva nel valutare la crescita della dimensione degli acini che, a maturità, si ferma. Il metodo suggerito è quello di togliere un acino da un grappolo e di controllarlo dopo un po' di tempo. Se non si è ancora a maturità, le altre bacche continuano a crescere e riempiono il vuoto lasciato dall'acino tolto. Quando gli acini non crescono più ed il buco non viene riempito, allora si è pronti. Anche questo sistema si basa sull'attenta osservazione di quanto succede in vigna. Come il precedente, è un sistema abbastanza buono, ma non permette la finezza che cerchiamo adesso.

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In ogni caso, queste conoscenze erano avanzate per l'epoca. Molto probabilmente erano conosciute e messe in pratica solo da chi aveva la cultura per leggere i trattati agrari di allora. Sicuramente la maggior parte dei vignaioli raccoglieva l'uva senza conoscere queste tecniche e senza grande precisione per la maturità, come è successo nella stragrande maggioranza delle vigne fino a non molto tempo fa.

Quando si raccoglieva nel passato? I vignaioli spesso raccoglievano nello stesso periodo tutti gli anni, quando iniziava il vicino, quando avevano tempo dalle altre incombenze, ecc. In epoca antica si andava anche a chiedere agli indovini. Infatti Catone e Columella, nei loro testi, "sgridano" i vignaioli che si affidano ad astrologi, aruspici o altre fonti simili per decidere il tempo della vendemmia, invece che imparare il loro mestiere!

 

 

Quando vendemmiavano?

Columella ci offre la testimanianza più precisa sulle date della vendemmia, nel suo calendario dei lavori agricoli (libro XI del De re rustica). Scrive nella seconda metà del I sec. d.C., per cui nel periodo climatico dell'Optimum Romano. Il periodo della vendemmia sembra molto simile al nostro.

Nel calendario mensile dei lavori, Columella inizia a parlare di vendemmia ad agosto, quando dice che si inizia a raccogliere l'uva nelle terre con climi notevolmente caldi, come la Betica, nel sud della Spagna (quella dello zio Marco) e il nord Africa. All'inizio di settembre, scrive, si inizia a vendemmiare nei luoghi vicini al mare e quelli caldi in generale. Nella seconda metà del mese, afferma che ormai si raccoglie un po' ovunque. Infine, ad ottobre si vendemmia anche nelle zone più fresche. Ricordo che ai tempi di Columella si seguiva il Calendario Giuliano, noi quello Gregoriano, ma più o meno i mesi coincidono.

La raccolta era fatta con piccoli falcetti ricurvi, detti falcula vindimiatoria. Per raggiungere i grappoli delle alberate, si usavano scale. Plinio raccomanda di non raccogliere l’uva calda e neppure quella ricoperta di rugiada, ottimi consigli anche per oggi. I grappoli erano riposti in ceste, come si vede in tanti mosaici o affreschi romani, oppure in contenitori di legno, come scrive Catone.

 

 

Quanto produceva una vigna dell'antica Roma?

"Vinea est prima, si vinum multum siet"

Così scriveva Catone nel II secolo a.C.: "La vigna è la più conveniente fra le coltivazioni, se produce molto vino".

Infatti, in generale, rispetto ai nostri parametri, la produzione raccontata dai Rustici Latini è veramente alta, come già abbiamo visto in anteprima con la meravigliosa vigna di Palemone (qui).santa costanza roma crisitanesimo-romano

Per i Romani, come in tutte le epoche passate anche più vicine a noi,  il valore della vigna era legato all'alta produttività, anche se riconoscevano un'opportuna riduzione delle rese per i vini di grande pregio. Tolta questa piccola parte, la grande massa di uva serviva a produrre grandi quantità di vino a basso costo. I vari autori antichi ci forniscono alcune stime.

In Cispadania (attuale Emilia Romagna e anche parte delle Marche) sembra che si producesse in media intorno ai 10 cullei* di vino per jugero* (circa 200 hl/ per ettaro), con punte estreme di 15 cullei (circa 320 hl/ha). Rese un po' più basse sono testimoniate per il centro Italia. Vi ricordate la meravigliosa vigna di Palemone che, secondo Svetonio, produceva 360 grappoli per ogni vite? Anche Columella la cita, dopo che era passata sotto la proprietà di Seneca, con una produzione di 8 culei per jugero (circa 170 hl/ha). Columella afferma che era meglio cessare l'uso di una vigna se questa fosse scesa al di sotto dei 3 cullei per jugero (circa 65 hl/ha). Naturalmente, da questa considerazione erano escluse le poche vigne pregiate, per le quali si citano anche minimi di 1 culleo/jugero (circa 21 hl/ha).

Considerate che oggi abbiamo una resa media in Italia che si aggira intorno ai 100-120 q.li di uva per ettaro (esattamento 108 q.li/ha nel 2019), che corrispondono a circa 75-90 hl di vino per ettaro. In Toscana, dove di media la qualità è molto alta, nel 2019 la resa media è stata di 66 q.li/ha, cioè poco più di 50 hl/ha. (Questi dati li ho presi dall'utilissimo blog "I numeri del Vino", qui)

Le rese romane sono quindi enormi rispetto alle nostre, considerando anche che all'epoca le vigne non avevano la densità d'impianto di oggi, anzi, spesso erano in coltura promiscua. Quindi, ogni singola vite produceva quantità di uva esagerate. Ricordiamoci anche che la forma di coltivazione più diffusa era la vite maritata, che è molto espansa e porta ad alte produzioni.

Certi studiosi hanno giustificato questi numeri pensando che fossero le rese massime possibili. C'è chi sostiene che non debbano essere presi esattamente alla lettera, col sospetto che alcuni autori romani possano peccare di una certa enfasi quando vogliono lodare qualcosa. Ciò non toglie che la quantità, per la produzione di massa, non mancava di certo.

Per ora ci fermiamo qui, sulla soglia della cantina, col cesto in spalla. Ci entreremo un'altra volta.

 

[alert style="warning"]*Unità di misura citate in questo articolo:

L'unità di misura della capacità riferita alla produzione del vino era il culleus, che corrispondeva ad un grande otre in pelle di circa 520 litri, la più grande unità di volume romana. Sotto ad esso c'era l’anfora, amphora, che corrispendeva a circa 26 litri. Ci volevano 20 anfore per fare 1 culleus. L'unità di misura di base era il sextarius, il sestero, che corrisponde a poco più di mezzo litro (circa 540 ml). 1 amphora= 48 sextarii.

L'unità di misura più usata per le superfici agricole era lo jugerum, circa 2553 m2, più o meno ¼ di ettaro (che, ricordo, è 10.000 m2). L'unità di base era l’actus quadratus, la metà dello jugero.[/alert]

Bibliografia:

"L'agricoltura di Lucio Giunio Moderato Columella" volgarizzata da Benedetto del Bene, con annotazioni adattate alla moderna agricoltura e con cenni sugli studi agrari d'Italia del cav. Ignazio Cantù, Milano, dalla Tipografia di Giovanni Silvestri, 1850.

"Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana", a cura di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.

"Il vino nel «Corpus iuris» e nei glossatori", Cornelia Cogrossi, (2003) In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 499-531.

“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.

“Storia dell’agricoltura italiana: l’età antica. Italia Romana” a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002

“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.

"Meteo, clima e storia. Le variazioni climatiche del periodo Romano". Marco Rossi, 2007.

“Studi sui Libri ad edictum di Pomponio”, Emanuele Solfi, 2002, ed. LEM

“Origini della viticoltura”, Attilio Scienza et al., Atti del Convegno, 2010.

“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883.

“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937.

“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961.

“Il vino nella storia”, Enrico Guagnini, 1981.

“Il vino, storia, tradizioni, cultura”, Hugh Johnson, 1991.

“Contadini perfetti e cittadini agricoltori nel pensiero antico”, Valerio MerloAlce Nero.


Le magliette 2020

Sono arrivate le magliette ufficiali della vendemmia! Il 2020 è turchese: il colore del mare, della tranquillità ma anche di un nuovo inizio, tutte cose di cui abbiamo bisogno quest’anno.

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In edicola, la guida di Repubblica sulla Costa Toscana

In questi giorni potete trovate in edicola la guida di Repubblica dedicata al nostro bellissimo territorio.
È la costa toscana, fatta di mare, campagna, storia, natura, grande cucina e prodotti di territorio eccezionali, come l’olio extravergine d’oliva ed il vino.

Grazie a chi ha curato quest’ultima parte, l’AIS, per la menzione della nostra azienda:

” ... La gamma dei vini è diversificata e di grande livello. In una denominazione a vocazione rossista, sono riusciti anche a mettere a punto un grande bianco, il Criseo... “

Se decidete di trascorrere qualche giorno o una vacanza in questa meravigliosa parte della Toscana, ricordatevi che vi aspettiamo a Guado al Melo.

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"La stirpe del vino" vince il Premio Biblioteca Lunelli

Con piacere abbiamo saputo che il libro di Attilio Scienza e Serena Imazio, "La stirpe del Vino" (ed. Sperling & Kupfer 2018) ha vinto la prima edizione del Premio Biblioteca Lunelli, un riconoscimento per testi di argomento enologico.

https://www.ildolomiti.it/societa/2020/il-premio-lunelli-va-a-attilio-scienza-e-serena-imazio-la-prima-edizione-al-vino-letterario-con-la-stirpe-del-vino


Orario di apertura estivo

Dalla prossima settimana (da lunedì 6 luglio) cambiamo gli orari di apertura al pubblico della cantina:
- dal lunedì al sabato mattina 10.00-12.30 16.00-20.00,
- il sabato pomeriggio 15.00-18.00,
- domenica solo su prenotazione (per gruppi).
Vi aspettiamo!
Annalisa e Michele


Fertilità e malattie: ragione vs superstizione nelle vigne dell'antica Roma ... ed oggi

.... continua da qui

Come abbiamo già in parte visto nei post precedenti, gli autori agrari romani (qui), in particolare Columella, raccontano in genere di una viticoltura molto pratica e razionale, che nasce dall'esperienza e dall'attenta osservazione dei fenomeni della vigna, come facciamo oggi, pur con i limiti conoscitivi dell'epoca. Nelle opere d'ambito letterario o storico, le descrizioni agricole si mescolano molto spesso ai riti religiosi o alle credenze superstiziose, che erano sicuramente molto diffuse nelle campagne, soprattutto in relazione agli aspetti più difficili da gestire, come la fertilità del suolo e le malattie di cui racconto in questo post.

La-luna-e-i-suoi-influssi-in-agricolturaLa contrapposizione fra ragione e superstizione in agricoltura è antica. Mescolate più o meno tra di loro, hanno attraversato tutti secoli e sono arrivate fino a noi, l'era delle bufale e dei falsi miti, che stanno proliferando più che mai per quanto riguarda il cibo e la sua produzione.

Già Catone se la prendeva con i vignaioli che, invece di imparare le tecniche viticole, andavano da astrologi, aruspici o auguri (nell'immagine sotto) per decidere quando iniziare la vendemmia o fare altri lavori, con risultati disastrosi! Anche Columella cercava di persuadere dell'inutilità delle divinazioni o altre superstizioni, come certe pratiche magiche che si facevano nelle campagne.

I riti religiosi di allora sono continuati nelle processioni e benedizioni dei campi del cristianesimo, rimaste in uso nelle nostre campagne fino a non molto tempo fa. Oggi la dimensione religiosa è quasi del tutto scomparsa. Stanno invece emergendo sempre più, in questi ultimi anni, approcci irrazionali che sembravano essere passati definitivamente in secondo piano con l'epoca moderna, ma così non è stato. Fra l'altro, come vedrete, sono molto simili a quelli che erano già deprecati dagli agronomi dell'epoca antica. an-augur-of-ancient-rome-utters-mary-evans-picture-library

Possibile che non sia cambiato niente?

In passato c'era reale ingenuità verso l'irrazionale, il che era spiegabile con l'ignoranza diffusa. Tuttavia l'istruzione generalizzata di oggi sembra non aver cambiato molto la situazione. Sembriamo più che mai in balia di falsi miti, bufale, paure, pratiche pseudo-antiche, ecc.

D'altra parte, posso capire che per molti non è facile difendersi, c'è troppa confusione di informazioni. L'agricoltura è ormai molto lontana dalla vita della maggior parte delle persone (e non parlo di coltivare un orto o un giardino amatoriale). Troppi esperti o pseudo-tali ne parlano con superficialità. Inoltre,  un ruolo importante è giocato dal marketing del cibo che, forse a corto di altre idee, sembra cavalcare più che mai paure e storie evocative, contribuendo a consolidare miti o bufale varie.

Direte: che male può fare? Purtroppo molto. Stiamo già assistendo a ripercussioni che, se si continua in questa direzione, diventeranno sempre più importanti, con effetti sulle politiche agricole, le regolamentazioni del comparto, gli indirizzi della ricerca scientifica, ecc. Pensiamo a quelle pratiche o prodotti usati in agricoltura che sono vietati o viceversa osannati per motivi di "pancia" o di mito, più che di reale sperimentazione. In generale, tutto questo rischia di portarci ad uno scadimento generale dell'agricoltura, con influenze sulla qualità e/o la quantità dei prodotti e sul futuro stesso del settore.

Tuttavia, l'ignoranza e la superficialità in agricoltura sono piaghe che esistono da sempre, come ci racconta anche Columella. Nella prefazione al suo De re rustica, già lamentava quanto l'agricoltura fosse sottovalutata. Molti, scrive, attribuiscono l'impoverimento dei suoli ed il declino dell'agricoltura al fato, alle avversità metereologiche o ad altro, mentre quello che manca, spesso, è solo la conoscenza.

Columella ci invita a riflettere sul fatto che, mentre tutti condividono l'idea che serva una buona istruzione per svolgere la maggior parte delle professioni, lo stesso non succede per l'agricoltura, che è pure fra le attività più importanti, perché senza di essa l'uomo non può nutrirsi. Eppure, troppe persone la praticano (o ne parlano, aggiungo io) con leggerezza, solo con conoscenze superficiali. Così l'agricoltura peggiora sempre più e le importazioni dei prodotti diventano sempre più indispensabili.

Sembra scritto oggi!

 

Veniamo però ai temi della vigna che ci interessano, la fertilità e le malattie, e vediamo come le affrontavano al tempo dell'antica Roma, sia in modo razionale che con la superstizione e la magia.

 

Fertilità e concimazione

I problemi legati alla fertilità del suolo non sono solo moderni, ma hanno da sempre un ruolo centrale nelle preoccupazioni agricole.

Fin dalle epoche più remote la fertilità era legata ad eventi inspiegabili e quindi collocata nell'ambito del sovrannaturale. Era vista come segno di favore da parte degli dei o, con la sua mancanza, di punizione. Tutti popoli, in tutte le epoche, hanno creato riti religiosi, offerte, sacrifici o pratiche magiche, nella speranza di avere buoni raccolti. Per fortuna però l'umanità non è rimasta ferma solo a questi aspetti: i nostri avi agricoltori, con la capacità di ragionamento e di osservazione legate alla pratica, hanno capito che la terra aveva bisogno di essere "nutrita" con concimazioni perché potesse continuare a donarci i suoi frutti.

AgricolturaèVita Oggi sappiamo che la fertilità dipende da un insieme di caratteristiche del suolo di natura chimica, fisica e biologica. Grazie ad esse il suolo è in grado di fornire (o meno) gli elementi minerali che servono alle piante come nutrimento. La perdita di fertilità dipende da molti fattori. Ogni pianta sottrae nutrienti al terreno in cui cresce, in modo maggiore più la coltivazione è intensa. Inoltre si perdono per fenomeni di lisciviazione (cioè l'azione di trascinamento dovuto all'acqua che passa nel suolo), problemi di compattamento, di erosione, ecc. In agricoltura gli elementi nutritivi devono quindi essere reintegrati in qualche modo.

Tornando alla viticoltura dell'epoca Romana, i nostri autori agrari riconoscevano la grande importanza della concimazione della vigna. Oggi sappiamo che l'ottimale nutrizione delle viti è un fattore essenziale per la qualità del vino. Secondo Columella, la concimazione deve essere “frequente, tempestiva e modica”. Oggi diremmo, qualcosa di simile, anche se più preciso, secondo i principi della viticoltura integrata sostenibile: va fatta in modo appropriato, solo quando e dove serve, in riposta alle esigenze nutrizionali specifiche di ogni particella di vigna.

Catone raccomanda che si usi buon letame, fatto ben maturare, prodotto da pecore o cavalli. Quello bovino all'epoca non era considerato ottimale. Oggi il letame è usato ancora, ma spesso è difficile da reperire, soprattutto nei territori dove mancano gli allevamenti. Allora, come oggi, veniva data grande importanza anche alla concimazione fatta con i resti verdi (tralci della potatura, dei raspi, delle vinacce, erba, …), che formano compost. Oggi sappiamo anche che letame e compost non sono sempre sufficienti. Ne parleremo meglio un'altra volta: è un tema molto complesso.

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Se passiamo agli aspetti meno razionali, fra la gente comune delle campagne erano diffuse molte superstizioni e riti religiosi per incrementare la fertilità agricola.

Fra le pratiche magiche della vigna, mi è piaciuta molto l'usanza di appendere ai rami degli alberi delle piccole maschere di Bacco, dette oscilla (oscillum al singolare), che il vento faceva girare. Si credeva che la parte di vigna dove si voltasse la maschera diventasse molto feconda. (Virgilio, Georgiche, II). Mi sembrano installazioni artistiche.

Un'altra pratica magica, molto più esoterica, consisteva nell'impiantare tre corni di capra nella terra intorno alla pianta a cui erano avvolte le viti (qui descrivo il sistema di coltivazione romano tradizionale, la vite maritata all'albero), con la parte cava verso l'alto, di poco sporgenti dal terreno. Si credeva che la pioggia, entrata nelle corna e poi passata nel suolo, avrebbe donato fertilità.

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Diversi animali rientravano spesso nei riti propiziatori e di fertilità, tramite sacrifici o attraverso l'uso magico di parti del loro corpo (corna, ossa, ecc.). Gli antropologi parlano di magia per compensazione, perché questi animali erano considerati molto pericolosi per la vigna. Oltre a cinghiali, daini, cervi e caprioli, che danneggiano le vigne anche oggi, allora c'era ancora un grande bovino selvatico, l'uro (Bos taurus primigenius L.). I buoi che lavoravano la vigna erano dotati di museruole, perché non danneggiassero le viti e le altre piante. Un altro grande pericolo, allora, derivava dalle greggi sfuggite al controllo dei pastori. La capra era considerata la nemica principale del vignaiolo. Infatti, non a caso, era l'animale sacrificale per eccellenza al dio Bacco.

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Le corna, in particolare, hanno assunto tanti significati simbolici presso diversi popoli ed in varie epoche, fra cui quelli di forza e di fertilità, oltre che di protezione dagli influssi maligni. Il Cristianesimo, per contrasto, le ha messe sulle teste dei diavoli. Oggi, tornano, curiosamente, nelle vigne.

 

 

Malattie ed avversità della vite.

Le malattie sono probabilmente l'aspetto più debole dei testi dei Rustici Latini, compreso il grande Columella. D'altra parte in questo ambito non sono sufficienti una buona pratica e capacità d'osservazione. Servono conoscenze più approfondite sulla natura delle malattie e dei parassiti, sulla fisiologia della vite, di chimica, ecc., che arriveranno solo dall'Ottocento in poi. Nonostante ciò, si intravede comunque nei loro scritti un tentativo di ricerca razionale che, seppur debole, mostra qualche spunto interessante.

Come vedremo, anche questo ambito così problematico cadeva facilmente preda delle superstizioni e delle pratiche magiche, che sono spesso figlie dell'impotenza. La vita degli agricoltori dal passato non era di certo facile.

1065_-_Roma,_Museo_d._civiltà_Romana_-_Calco_sarcofago_Giunio_Basso_-_Foto_Giovanni_Dall'Orto,_12-Apr-2008Fortunatamente, i nostri avi romani (e per molti secoli a venire) si sono risparmiati le peggiori malattie della vigna, capaci di mettere veramente in ginocchio i viticoltori. Sono arrivate in Europa solo nell’Ottocento, dall'America: la fillossera, l'oidio e la peronospora.

Non mancavano però le malattie autoctone, che creavano comunque problemi. Tuttavia sono meno distruttive di quelle americane: colpiscono per lo più il grappolo e, salvo casi particolarmente nefasti, possono essere "sopportate" meglio dal vignaiolo (pur perdendo in qualità e produzione). In certi casi possono essere contenute eliminando per tempo i primi segni di infezione, oppure facendo una selezione dei grappoli.  A questi links trovate come le affrontiamo noi, con la moderna viticoltura integrata e sostenibile: tignoletta, muffe varie e mal dell'esca, insetti ed altri animali, virus e fitoplasmi.

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cocomero asinino

Per diverse malattie, i Rustici Latini consigliavano l’uso di sostanze che si pensava avessero funzioni "disinfettanti". Torna infatti spesso l'uso dell'aceto o di impiastri a base di elaterio (Ecballium elaterium L., detto anche cocomero asinino o cocomero selvatico o sputaveleno), con cui strofinare le parti infette. L'elaterio è una pianta selvatica mediterranea, usata in passato per gli effetti purganti, ma abbandonata per l'elevata tossicità. Non mi risulta che questi composti  possano essere utili.

Un rimedio ricorrente era l’aspersione delle viti con urina umana vecchia. Noi sappiamo che non serve per combattere le malattie. Tuttavia l’urina apporta azoto, un po' di fosforo e potassio. Forse veniva consigliata perché si osservava un certo effetto benefico, semplicemente come forma di concimazione. In realtà l'eccesso di azoto è uno svantaggio per certe malattie della vite ma, forse, all'epoca c'erano più carenze che abbondanze di nutrienti.

Per prevenire malattie e problematiche dovute alle gelate o all'umidità, Columella consiglia di accendere nelle vigne dei mucchi di paglia o di spargere cenere calda sulle viti. Ancora oggi, nelle località più fredde, si cerca di evitare i danni dal gelo accendendo fiaccole nella vigna.

Fiaccole per difendere i vigneti dal freddo nei Grigioni
Fiaccole per difendere i vigneti dal freddo nei Grigioni (da RSI Svizzera)

Dalle descrizioni degli autori latini non è comunque facile riconoscere le malattie ed i parassiti che sappiamo infestare la vigna, allora come oggi. Sono troppo scarne e vaghe, si possono solo fare ipotesi. Ad esempio, si parla di viti che non emettono frutto, le foglie diventano bianche e si seccano. Dai sintomi sembra una muffa, molto probabilmente la botrite in fase precoce. In questo caso il rimedio consigliato era di sfregare le piante con aceto fortissimo, mescolato a cenere e di versarlo, diluito, sulle radici.

Vengono descritte delle viti malate, con le foglie che diventano rosse (il mal dell’esca?). Consigliavano di trivellare la corteccia e nel buco introdurre un rametto di quercia o una pietra, o chiodi. Non stupitevi: interventi di tagli sul tronco vengono fatti anche oggi, con risultati spesso positivi, perché è una malattia che colpisce i vasi linfatici della pianta ed il legno. Altro consiglio antico era di tagliare le viti inferme vicino a terra, coprirle con un po’ di terra e sterco e da qui ripartire. Anche questo ha un senso, considerando anche che allora le viti erano "franche di piede", cioè non erano innesti come oggi (per via della fillossera: vedete qui).

VILLA_ADRIANO12larva-tignoletta-acino-e1525259466510Diversi autori citano "bestiole" che creano danni alla vite, che ne erodono i teneri tralci ed i frutti o che alterano le foglie. Catone parla di piccoli bruchi. Plauto, un autore di commedie, ne La Cistellaria paragona un personaggio particolarmente fastidioso all'involvolus, che definisce "bestiam et damnificam, quae in pampini folio intorta se", "animale malvagio e malefico, che si arrotola nel pampino della vite" (Atto IV, Sc. II, v.63). Plinio parla di un convolvulus e di araneum (più o meno, ragnatela), Columella di volucre. Non si capisce se parlano della stessa o più avversità, sicuramente di insetti o altri parassiti. Alcuni autori moderni hanno pensato di riconoscere in certe descrizioni le forme larvali della tignoletta (o tignole in generale) e gli acari, parassiti molto comuni nelle vigne. Catone consiglia l'uso di un miscuglio di morchia cotta, bitume e zolfo. Quest'ultimo è uno dei prodotti fitosanitari più antichi. Viene usato ancora oggi nella difesa, anche se contro altre malattie (l'oidio). In certe situazioni, può dare effettivamente degli effetti secondari sugli acari.

Altre pratiche, raccontate da diversi autori, sono invece veramente inspiegabili, tentativi ingenui o legati a superstizioni e a credenze magiche. Contro malattie e sfortuna bruciavano o seppellivano in vigna molte cose: corni, pesci, gamberi, piante varie, sterco di capra o di bue. Strofinavano le falci con sangue d'orso o con pelle di castrato, per una qualche azione purificante. Per disinfestare dai topi le vigne più vicine alle case, si consigliava di potare in una notte di luna piena. Qualche cedimento in questo senso sembra esserci anche nell'ultimo libro "Sugli Alberi" di Columella, la cui attribuzione è però incerta. Secondo diversi studiosi potrebbe essere un'opera spuria, forse di un certo Gargilio Marziale (o chi per esso), che copiò ampie parti del noto autore ed introdusse passaggi di suo pugno, di tutt'altro tono rispetto al trattato originario.

cranio-di-capra-secco-con-grandi-corna-su-una-pietra-con-i-raggi-del-sole-che-gli-battevano-sulla-fronte_72928-143Se tutto questo vi sembra strano, sentite come si prepara questo composto, che dovrebbe tenere lontane le malattie della vite. Bisogna raccogliere corteccia di quercia, togliendola dal tronco con una pialla, all'inizio dell'autunno. La corteccia va  tritata finemente e con essa si deve riempire il cranio di un animale domestico, passando attraverso il foro alla base (da cui entra il midollo spinale). Si pressa bene e si chiude il foro con un frammento di osso e creta. Il cranio va interrato sul bordo di uno stagno, in presenza di materiale vegetale in decomposizione. In primavera si estrae il contenuto, che viene seccato. Quantità infinitesimali di esso sono poi sciolte in acqua piovana, mescolata con certi movimenti, tre volte a destra e tre a sinistra, ...

Quella che ho appena descritto non è una pratica di epoca romana, ma di oggi (fa parte della biodinamica). Assomiglia molto a quelle che erano considerate superstizioni già duemila anni fa. Per altri preparati si devono usare corna di vacca o vesciche di cervo, interrate in notti di luna piena, ... Non sono neppure semplici da preparare: per fortuna che ormai si trovano comodamente in commercio, venduti da aziende pronte a soddisfare anche questi bisogni moderni di magia.

 

Le divinità della vigna

Per risolvere problemi di fertilità o avversità varie, si ricorreva anche all'aiuto degli dei, con riti e sacrifici.

Quando si parla di vino, tutti pensano essenzialmente a Bacco, un dio originariamente legato alla forza della natura ed ai suoi cicli. Comunque, è giunto a Roma solo alla fine del III sec. a.C., arrivando dalla Grecia e passando prima dall'Etruria, innestatosi su culti preesistenti. Lo conosciamo bene, per cui non mi dilungo. Riporto solo quella che mi è sembrata una sorta di preghiera del vignaiolo, scritta da Virgilio all'inizio del secondo libro delle Georgiche:

[one_second][info_box title="Dei della vigna e della fertilità agricola" image="" animate=""]

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A Roma la viticultura era principalmente tutelata da Giove, che aveva stretti legami con la natura e, in particolare, con la vigna. A lui infatti erano dedicate le feste che precedevano la vendemmia.

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Un culto legato alla terra è quello della triade Cerere, Libero e Libera. Libera è la Dea Madre, dea della fertilità dei campi. Libero è il figlio-vegetazione che ogni anno muore e ritorna. In altre versioni, Libero e Libera sono i due figli della dea madre Cerere, dea della fertilità e dei raccolti. Libero divenne poi la figura dominante, coll’appellativo di Pater, legato in modo particolare alla fecondità. A lui e a Libera erano consacrati gli strumenti della vendemmia e della cantina. Fu poi assimilato in parte a Bacco. Ricordo poi la Dea Dia o Bona Dea, ancestrale Dea Madre-Terra, rimasta come protettrice dei lavoratori dei campi e della fecondità femminile, moglie di Fauno, dio della campagna, dei pascoli e dell'agricoltura. La dea Tellus presiedeva a tutta la terra, dalle ricchezze agrarie a quelle minerarie ed ai defunti.

Giano è un Dio locale molto antico. Secondo Virgilio (Eneide), era re degli Aborigeni, un popolo primitivo abitante delle alte cime dei monti, a cui insegnò l’agricoltura e la religione. Un altro mito lo descrive come il fondatore di uno dei villaggi da cui nacque Roma, posto sul colle Gianicolo. Più tardi si aggiunse anche la storia della sua accoglienza del dio Saturno, che era stato spodestato da Giove. Il suo arrivo diede il via all’Età dell’Oro, un'epoca di grande abbondanza agricola. In cambio Giano ricevette il potere di vedere il passato e il futuro, diventando il Dio Bifronte, simbolo dell’inizio e della fine dell’anno. Un altro mito racconta che sia stato Saturno a donare il vino al Re Giano.

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C'è però una tradizione ancora più antica e locale di Saturno, raccontata da Catone, nella quale è descritto come un dio-viticoltore sceso dai monti Sabini. Ha in moglie Opi, la dea madre-terra sabina, diventata a Roma dea dell'abbondanza agricola. A lui si deve la domesticazione delle piante utili, l'insegnamento dell’arte degli innesti, della coltivazione della vite e dell'apicoltura. Veniva sempre rappresentato con in mano una falce, il simbolo del vignaiolo. Gli si doveva presentare un'offerta di farro intriso di lardo e vino. Altri dei molto antichi e locali erano la coppia Robigo e Robiga, protettori del grano dalla ruggine (una malattia causata da un fungo), invocati anche perché proteggessero la vigna dalle malattie derivate dall'umidità e dalle piogge.

Nei territori soggiogati, le divinità locali rimasero come riferimento principale, come ad esempio la dea-madre Terra Feronia, protettrice dell’agricoltura presso i Volsci, Latini, Marsi, Umbri ed Etruschi. Elvio era il dio dei Sanniti che favoriva la raccolta della frutta e la vendemmia, ... Fra le divinità greche assimilate ricordo anche Priapo, raffigurato con un enorme fallo, espressione della sessualità maschile, della fecondità e della fertilità della vegetazione. In Italia il suo culto fu soprattutto legato alla protezione degli orti, delle vigne e dei giardini dai ladri (umani, ma anche uccelli o altri animali), tramite una sua effige posta all'ingresso di essi.[/info_box][/one_second]

"Vieni qui, o padre Bacco*, qui c’è il pieno di tutti i tuoi doni, la vigna fruttuosa grazie a te è rigogliosa di pampini in autunno e il vendemmiato schiumeggia nei tini ricolmi;
vieni qui, o padre Bacco, togli i sandali, tingi insieme a me gli stinchi nudi nel mosto nuovo."

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HUC, PATER O LENAEE*, TUIS HIC OMNIA PLENA
MUNERIBUS, TIBI PAMPINEO GRAVIDUS AUTUMNO
FLORET AGER, SPUMAT PLENIS VINDEMIA LABRIS;
HUC, PATER O LENAEE, VENI, NUDATAQUE MUSTO
TINGUE NOVO MECUM DERPTIS CRURA COTHURNIS...

*Leneo è uno dei diversi appellativi di Bacco

 

In realtà, erano numerose le figure divine a cui si sarebbe potuto rivolgere un vignaiolo dell'epoca romana. Le divinità romane legate alla terra, alla fecondità e all'agricoltura erano tante, con sovrapposizioni e connessioni spesso difficili da comprendere. In origine, la religione romana adorava dei numi (numen, al plurale numina) che non erano persone, ma atti della potenza divina, espressioni dei molteplici aspetti dei fenomeni naturali. Fu l'influenza di altre culture (etrusca, greca, ecc.) che li portò, più o meno dalla Repubblica inoltrata, a dare loro forma sempre più umana, storie e gerarchie. Tuttavia l'impronta culturale originaria rimase. Con essa si spiega l'assoluta tolleranza ed assimilazione dei Romani verso le divinità di altri popoli. L'unico limite che ponevano era che il nuovo culto non creasse pericoli sociali o politici. Comunque, con la lucidità laica di molti grandi autori romani, Varrone scrisse che in origine fu adorato ciò che era utile.

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Nelle campagne, fra i più semplici, le più amate e venerate erano spesso le figure divine locali, anche "minori", ma che i contadini sentivano più vicine. Alle divinità, come quelle elencate a lato, aggiungiamo il Genius loci, il genio del luogo, raffigurato come serpente o figura alata (di cui ho raccontato qui) o le Ninfe, legate a fonti o boschi o certi luoghi, ...

Inoltre, ogni singola attività agricola, in modo incredibilmente specifico, aveva il suo nume tutelare. geniiServio ne elenca alcuni: Deus Vitisator (il dio che presiede all'impianto delle vigne), Vervactor (alla fienagione), Reparator (alle riparazioni, sistemazioni dei corsi d'acqua e recinzioni, ...), Obarator (all'aratura), Imporcitor (alla semina), Insitor (agli innesti), Occator (all'erpicatura), Sarritus (alla sarchiatura), Subruncinator (alla zappatura per diserbare), Messor (alla mietitura), Convector (al trasporto), Conditor (alla formazione di cumuli di fieno, grano o paglia), Promitor (al disfacimento dei covoni di fieno, paglia o cumuli di grano), ecc.

Il Cristianesimo faticò molto di più a sradicare questi culti contadini locali, diffusi capillarmente nelle campagne, che quelli delle divinità principali nelle città. Ce la fece attuando semplicemente un'operazione di sostituzione: queste figure divennero le figure dei Santi Patroni o i culti di Madonne locali. Allo stesso modo sono sopravvissute molte festività antiche legate al mondo agricolo, assorbite da festività cristiane o diventate fiere agricole tradizionali.

 

Carlo Levi, confinato in Basilicata dal regime fascista, rimase affascinato dalla scoperta della permanenza di culti arcaici agresti e lo raccontò nella sua opera "Cristo si è fermato ad Eboli" (1945). A proposito del culto di una Madonna Nera, ha scritto:

 

[blockquote author="" link="" target="_blank"]"La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera, delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una Dea infernale delle messi.

...

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La terra era troppo dura per lavorarla, le olive cominciavano a risecchire sugli alberi assetati; ma la Madonna dal viso nero rimase impassibile, lontana dalla pietà, sorda alle preghiere, indifferente natura. Eppure gli omaggi non le mancano: ma sono assai più simili all'omaggio dovuto alla Potenza, che a quello offerto alla Carità.

Questa Madonna nera è come la terra; può far tutto, distruggere e fiorire; ma non conosce nessuno, e svolge le sue stagioni secondo una sua volontà incomprensibile.

La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva; è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge; e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita."[/blockquote]

 

continua...

 

Bibliografia:

"De re rustica", Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846 (preferisco le traduzioni dell'Ottocento perchè, avendo una viticoltura e tecniche di produzione del vino più simili a quelle antiche delle nostre, sanno spiegare meglio i concetti e trovare le parole giuste. Quelle moderne spesso incappano in errori dovuti alla non conoscenza delle tecniche di viticoltura romane).

"Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana", a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.

"Storia dell'agricoltura italiana: l'età antica. Italia Romana" a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002

“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883, .

“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, .

“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961, .

“Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana, Attilio Scienza.

“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.

"Le tignole della vite", G. Anfora et al., Istituto Agrario di San Michele all'Adige, 2007.

http://narrabilando.blogspot.com/2014/05/culti-pagani-e-culti-cristiani.html


Cosa stiamo facendo ora in vigna: giugno e le cimature

In vigna è finita la fioritura e si sono formate piccole bacche verdi (allegagione). I tralci, che abbiamo palizzato (messi tra i fili, in posizione verticale, ricordate?) hanno continuato la loro crescita, arrivando anche un poco a sovrastare i fili più alti della spalliera. A metà giugno le giornate di sole e vento sono state interrotte da alcuni temporali, che hanno anche abbassato un po’ le temperature.

022Il cambio di tempo ha richiesto degli interventi per la protezione dalla peronospora, che in queste fasi è particolarmente pericolosa perchè potrebbe entrare nel grappolo. Grazie ai sistemi di viticoltura integrata, possiamo contenere questa malattia con un numero molto limitato di interventi, con prodotti a bassissimo impatto ambientale che non lasciano residui, ma molto efficaci per proteggere i nostri teneri grappolini in crescita. Evitiamo così di usare il rame, sostanza ecotossica e che richiede un numero di trattamenti molto più alto per avere una difesa sufficiente. Il rame è anche fitotossico in fioritura. Comunque, per fortuna, per noi la difesa dalla peronospora non è frequente. Ora è già tornato il clima caldo e ventoso che è la norma nella nostra costa toscana, per questo periodo.

 

Subito dopo l’allegagione è il momento delle cimature, cioè il taglio delle parti finali dei tralci in crescita, l'apice e le ultime foglie. È una pratica tradizionale antichissima, consigliata fin da Columella. Oggi sappiamo il perché.  Non è comunque una pratica generalizzata, però apporta diversi vantaggi che ora provo a spiegarvi.

La cimatura fa parte della grande famiglia dei lavori detti di “potatura verde”, che modificano la chioma della pianta. Se fatti in modo opportuno, migliorano la produzione e la sostenibilità della vigna. Gli interventi al verde, in generale, servono per mantenere la chioma dentro certi limiti di crescita, altrimenti la vigna diventerebbe poco percorribile, con rischi di rotture accidentali dei tralci. Servono poi anche a regolare gli equilibri fra vegetazione e produzione. È infatti importante che la vite abbia una chioma sufficiente, in relazione alle proprie condizioni ambientali e produttive, per accumulare sufficiente energia sotto forma di zuccheri. Non è però solo questione di quantità: è anche fondamentale la loro corretta distribuzione fra le varie parti della pianta, se si vuole avere una maturazione ottimale. Alcuni interventi influiscono anche su questi equilibri energetici. Inoltre, la chioma non deve neppure essere troppa, per l'esposizione ottimale delle foglie e dei grappoli (questi, a seconda delle condizioni climatiche, a volte devono essere più esposti, a volte più protetti). Infine, la vegetazione troppo sovrapposta crea micro-ambienti sfavorevoli, umidi, che favoriscono diverse malattie. Quindi certi lavori di potatura verde servono anche a prevenire le infezioni di patogeni.

 

Andiamo nel particolare: perché si fa la cimatura?

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Il motivo più “terra-terra” è togliere l’ingombro dei tralci che, cresciuti in altezza, possono ripiegare nell’interfilare. I risvolti fisiologici sono invece qui elencati, in modo sintetico:

  1. La cimatura rende le viti più resistenti agli stress idrici: le foglie apicali sono le più grandi consumatrici d’acqua. Togliendole, la pianta raggiunge un miglior equilibrio per le risorse idriche disponibili.
  2. Contribuisce alla nascita di vini più equilibrati: il taglio degli apici blocca lo sviluppo in altezza e stimola le gemme laterali, che formano i rami laterali o femminelle. Questo sposta gli equilibri interni, abbassa il vigore generale e comporta quindi una leggera diminuzione della produzione degli zuccheri, che nello stesso tempo sono però meglio veicolati verso i grappoli.
  3. Migliora il micro-clima della chioma: il taglio alleggerisce un poco la chioma, con maggiore illuminazione ed arieggiamento delle foglie sottostanti e dei grappoli, migliorando la qualità generale. Inoltre, si evitano micro-condizioni ambientali umide che favoriscono diverse malattie.
  4. Ringiovanisce la chioma: in un primo tempo in realtà la invecchia, perchè taglia le punte con le foglie giovani. In seguito però, lo stimolo dei rami laterali (femminelle) porta a far nascere nel corso della maturaziane tante nuove foglie giovani, molto efficienti nella fotosintesi. Quelle dei germogli principali, in questa fase, iniziano ad invecchiare. Il ringiovanimento complessivo contribuisce a supportare una maturazione ottimale, permettendo l’accumulo nel grappolo di tutti quei componenti che daranno ricchezza e complessità al vino.

Attenzione, però: come tutte le pratiche agricole, fatta bene è ottimale, fatta male crea problemi.

È ottimale in questa fase, subito dopo l’allegagione. Fatta troppo presto blocca l’accrescimento dei tralci e limita la parete fogliare (anche se in certi casi, per certe varietà, si è visto che, se fatta in pre-fioritura, può migliorare la percentuale dell'allegagione). Se viene fatta troppo tardi, la sua azione sui delicati equilibri fisiologici della vite può diventare più negativa che positiva, perché causa una diminuzione troppo forte della gradazione zuccherina e del peso dell’acino. Ad esempio, nei climi più freschi la crescita tardiva delle femminelle va a competere troppo con le bacche in maturazione per l’assorbimento delle risorse energetiche della pianta, a discapito delle seconde. Negli ambienti più caldi, viceversa, le cimature tardive non stimolano particolarmente la crescita dei rami laterali. Si rischia di portare via foglie senza benefici, ottenendo solo di diminuire la superficie fogliare.

Quanto tagliare? Dipende dalla propria situazione, ma di solito è poco. In genere bisogna evitare i tagli troppo drastici: non stiamo potando una siepe ornamentale! Come detto, se la chioma è troppo limitata, rischiamo conseguenze negative. Si è calcolato che è necessario che i grappoli abbiano un numero sufficiente di foglie sopra di sé per una maturazione ottimale (almeno una decina). Sono queste foglie sopra al grappolo a fornire gli zuccheri per la maturazione. Quelle sotto inviano i loro zuccheri essenzialmente ai tralci e agli organi perenni (tronco, radici). Se il rigoglio vegetativo è talmente intenso da richiedere tagli molto importanti, bisogna valutare di cambiare qualcosa d'altro nella gestione della vigna, a monte.

Seppure servono le attenzioni che ho spiegato, la cimatura non è un lavoro che richiede eccessiva precisione. Per questo, in un sistema a spalliera come il nostro, la sia può fare in modo meccanico, con un attrezzo portato dal trattore, anche perchè è molto importante concluderla velocemente, nella breve finestra di tempo che segue l'allegagione, senza andare troppo avanti.


Nuova annata: il Criseo Bolgheri Bianco 2018

L'attesa è stata un po' lunga ma finalmente è arrivata la nuova annata del nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco, la 2018.

C'è sempre un po' d'attesa ma quest'anno è stata un po' più lunga del solito. Tutti gli anni lo finiamo prima che sia uscita l'annata successiva, perchè è un vino prodotto in piccola quantità. Nasce infatti da una singola vigna di soli 0,7 ettari, Campo Bianco, posta vicina al nostro guado, prima che inizi il bosco.

L'annata 2017 era stata ulteriormente scarsa: la siccità aveva ridotto notevolmente le rese produttive. Fra questo e quel poco più di attenzione derivata dall’aver ricevuto i TreBicchieri del Gambero Rosso, il 2017 è finito molto rapidamente. Se siete curiosi di assaggiarlo, c’è rimasta solo qualche ultima Magnum.008

Il 2018 è stato un anno molto regolare, con caratteristiche di maggiore freschezza climatica rispetto al 2017. La primavera è stata molto piovosa e ha permesso di recuperare l’aridità dell’anno precedente. L’estate è stata invece nella norma, calda e siccitosa, senza particolari eccessi. Anzi, qualche breve pioggia ha un po’ rinfrescato le temperature a fine estate, senza creare problemi. Questo andamento stagionale ha permesso una maturazione più lunga del solito: abbiamo raccolto la vigna Campo Bianco il 10 settembre.

Questa data varia con le annate: in quelle più calde e aride può anticipare alla fine di agosto o nei primi giorni di settembre, in quelle più fresche si può spostare un po’ più avanti. L’importante è cogliere quel momento perfetto di maturazione sinergica, nel quale si trova l'equilibrio perfetto fra le varietà che vi sono in complantazione (Vermentino in prevalenza, Fiano, Verdicchio, Manzoni Bianco, Petit Manseng).  In questa scelta conta molto l'esperienza che abbiamo maturato su questa vigna in oltre vent’anni.

Una volta un vino come questo era chiamato uvaggio. Le uve, che sono cresciute insieme nella vigna Campo Bianco e sono state raccolte insieme, dopo la selezione sono anche co-fermentate. Si tratta di una pratica antica tradizionale, capace di far loro esprimere una personalità unica.

Il suo gusto? Ha un bel corpo, è morbido ma bilanciato da una grande freschezza. Inoltre ha una complessità aromatica incredibile, con aromi che cambiano in continuazione via via che il vino si ossigena nel bicchiere. Si sprigionano profumi di pompelmo, frutta tropicale, pasticceria, salvia, fiori bianchi, zafferano, note minerali, idrocarburi, ... Nel tempo prevarranno sempre più questi ultimi, perché è un bianco che può avere un lungo invecchiamento, grazie al fatto che dopo la fermentazione è rimasto in acciaio sui lieviti per quasi un anno. Ora lo proponiamo dopo che è stato quasi un altro anno ad affinare in bottiglia.

È ottimo adesso, ma se amate i bianchi dalle note più evolute, come Michele e me, potete tranquillamente conservarlo in cantina (al fresco e con bottiglia coricata) per ancora qualche mese … o qualche anno. Se resistete!


Siamo aperti: vi stiamo aspettando

Guado al Melo è di nuovo aperta ai visitatori, con orari ridotti.

La vendita del vino è possibile:

dal lunedì al giovedì 10.00-12.30 15.00-17.30

venerdì 10.00-12.30 15.00-18.00

sabato 10.00-13.00 15.00-18.00

Le visite guidate e le degustazioni si fanno solo su prenotazione, chiamando il numero 0565 763238 o scrivendo a info@guadoalmelo.it

Grazie!

 


I lavori primaverili: cosa stiamo facendo adesso

In questo momento la crescita della vite è vertiginosa. Ci sono tanti lavori da fare che si susseguono a ritmo incalzante. Ognuno di essi ha un nome particolare: così imparate anche un po’ il linguaggio del vignaiolo!

Stiamo ormai concludendo i lavori di  potatura verde, cioè di un insieme di diversi interventi che agiscono sulle parti verdi della pianta (foglie, germogli, tralci, grappoli), chiamata così in contrapposizione a quella "secca" o invernale (che abbiamo fatto sui rami spogli). Facciamo questi lavori tutti a mano, perchè richiedono scelte accurate per ogni singola vite. Vediamo quelli di questo periodo.

La spollonatura è l’eliminazione dei germogli che nascono dal portinnesto della vite, oltre che quelli che nascono sul fusto o altri rami legnosi dalle gemme latenti, rimaste nel legno vecchio. È importante farlo molto presto, prima che si sviluppino troppo. La scacchiatura invece è la rimozione dei germogli in eccesso dai tralci dell’anno.

https://youtu.be/nNVu7MpobYk

 

Tutti questi lavori di potatura verde sono importantissimi per far trovare alla vite il giusto equilibrio. Permettono di diminuire il carico della pianta, così che i futuri grappoli maturino il meglio possibile. Preparano la futura potatura invernale, che sarà più semplice. Inoltre, la massa fogliare viene resa meno densa, evitando così che si crei un ambiente di sovrapposizione ed umidità favorevole allo sviluppo di muffe o altre malattie. Infine, prevengono anche problemi di colatura. Col termine colatura si indica la caduta eccessiva dei fiori. In generale, rispetto ai fiori prodotti da ogni pianta, solo il 20-50% (dipende dalla varietà) verrà fecondato e allegherà, cioè formerà il frutto. Si parla di colatura se la caduta è superiore alla norma per quella varietà. Può dipendere da disequilibri fisiologici della vite, condizioni climatiche difficili, carenze nutrizionali, diverse malattie (virosi, peronospora, oidio, tignola, …).

Il lavoro che stiamo facendo ora è la palizzatura. Si tratta della sistemazione dei tralci in posizione verticale. Nei sistemi a spalliera come i nostri, si fa alzando una coppia di fili paralleli. Gli effetti sono numerosi: i tralci non invadono l’interfilare e noi non rischiamo di romperli nei passaggi con i mezzi, sono meglio distribuiti e meno affastellati. La posizione verticale, come ho già spiegato nel post sulla potatura, aumenta l’attività fisiologica dei germogli.

palizzatura
Questo schema (dal catalogo di Vignetinox), fa capire il sistema di fili che facilitano la palizzatura. I fili evidenziati in rosso nel disegno sono mobili e dotati di un sistema a molla. All'inizio della primavera sono in basso, tratteggiati nel disegno. Quando i tralci della vite crescono e si allungono, tendo a ricadere anche lateralmente. Allora la coppia di fili viene alzata ai due estremi del filare, permettendo di raccogliere e verticalizzare tutti i tralci con un solo gesto. Naturalmente ci possono essere alcuni tralci che sfuggono e verranno sistemati singolarmente.

 

In questo periodo è anche molto importante capire, il prima possibile, se ci sono carenze nutritive della vite. Su questa parte così complessa sarà però necessario un post dedicato.

A seconda poi delle condizioni ambientali, dobbiamo anche intervenire per evitare i problemi dati dall’oidio e dalla peronospora, secondo i principi della viticoltura integrata e sostenibile. In questa primavera 2020, almeno per ora, siamo un po’ più a rischio oidio che peronospora, come è usuale per le condizioni climatiche del nostro territorio. Sono le zone più umide e piovose che hanno in genere più problemi con la peronospora. Per quanto riguarda la tignoletta, abbiamo già distribuito nella vigna le trappole e i sistemi di confusione sessuale (lotta biologica). Se cliccate sui nomi, potete andate ai post in cui spiego cosa facciamo per ciascuna di queste avversità.


Il verde tra le vigne, ovvero la gestione sostenibile del suolo

Terreno “nudo”, prati dai mille fiori, monoculture seminate, pratini stile campo da golf, strisce verdi alternate ad altre marroni …

Avrete sicuramente visto nelle vigne tante situazioni diverse nella gestione del suolo. Non si tratta solo di una questione estetica o casuale. Alla base di queste scelte ci sono ragionamenti e necessità diverse, che proverò a spiegarvi in questo post.

[one_third][info_box title="Cosa significa sostenibile?" image="" animate=""]Oggi la parola sostenibilità è usata in tanti contesti e non sempre in modo corretto.

Una pratica agricola, per essere effettivamente sostenibile, non basta che suoni come vagamente "green" o "bio", ma deve dimostrare di funzionare per lo scopo che si prefigge. Deve soddisfare contemporaneamente queste diverse condizioni:

  1. Deve essere la scelta migliore in termini agrari. In questo caso, deve consentire alle viti di raggiungere un equilibrio ottimale rispetto alla situazione ambientale particolare. Per trovare la risposta dobbiamo quindi chiederci com’è il clima, il suolo, la pendenza, la disponibilità dell’acqua, quali portinnesti e varietà abbiamo, quanto produce quella vigna, il tipo di vino voglio produrre (giovane, da invecchiamento, spumante, ecc.), ...
  2. deve avere il più basso impatto sull’ambiente possibile (sostenibilità ambientale), dimostrato da studi e ricerche;
  3. non deve avere costi troppo alti (sostenibilità economica);
  4. deve rispettare i lavoratori (sostenibilità sociale).

Non è semplice trovare il sistema che le soddisfi pienamente tutte insieme. L'importante è trovare l’equilibrio migliore fra di esse. L'essenziale è avere dei sistemi di controllo che possano farci capire se stiamo lavorando bene, sia in termini di qualità che di sostenibilità o che, viceversa, è meglio cambiare qualcosa (ne parlo nel paragrafo "Capacità di scegliere").[/info_box][/one_third]

Storicamente nelle vigne ha prevalso a lungo il suolo costantemente lavorato. Ad esempio, quando abbiamo iniziato a lavorare a Bolgheri alla fine degli anni ’90, tutte le vigne erano nude. Noi abbiamo invece impostato fin dall'inizio una scelta diversa, l'inerbimento, in linea con le più avanzate ricerche di viticoltura integrata e sostenibile.

Negli anni la situazione è abbastanza cambiata un po’ ovunque e negli ultimi decenni l'inerbimento si è diffuso sempre più, con diverse impostazioni a seconda dei territori. Alla luce delle attuali conoscenze, è la forma che presenta più vantaggi ecologici ed economici, oltre che qualitativi, in grado di preservare la qualità del suolo e gli equilibri della vite. Se leggere fino in fondo capirete il perché.

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Non è giardinaggio

La gestione del suolo non è solo questione di ordine, di avere un bel paesaggio da ammirare. Ha delle ripercussioni importanti sull’ecosistema generale della vigna e sulle sue risorse naturali, oltre che sugli equilibri delle viti stesse, quindi sull’uva che andremo a raccogliere. Naturalmente non agisce da sola sulla produzione: va integrata con tutte le altre scelte e lavorazioni dell'anno.

A volte si sceglie l'una o l'altra gestione per abitudine, perché si è sempre fatto così, perché altri fanno così, ecc. In realtà dovrebbe dipendere essenzialmente dalle condizioni climatiche ed ambientali nelle quali si trova la vigna, dalle varietà e dai portinnesti utilizzati, oltre che da quale tipologia di vino si produce. Come ho spesso ripetuto, la viticoltura è qualcosa che va pensata sempre su misura, non esistono scelte migliori uguali per tutti, pur essendoci delle linee guida di base consolidate dagli studi e dall’esperienza.

 

confronto fra inerbimento e lavorazioneMeglio il prato o il deserto?

Fra le tante situazioni intermedie che si possono avere, sono due le categorie principali: le lavorazioni tradizionali, che portano a far sparire fino all’ultimo filo d’erba, e la presenza di vegetazione (inerbimento).

Queste due categorie principali portano dei pro e dei contro, che ho provato a schematizzare nel grafico a lato. Come vedete ci sono vantaggi e svantaggi sia a destra che a sinistra della tabella. Quale situazione allora è migliore?

Il punto nodale è legato alla competizione fra la vegetazione e la vite, per l'acqua e gli elementi nutritivi (sali minerali).  Sicuramente la vite non è una pianta che ha grandi richieste idriche, ma non deve neppure diventare un fattore limitante. La presenza di altra vegetazione può pesare in modo molto sfavorevole, soprattutto se la vigna è già in condizioni al limite.

La competizione ha fatto a lungo pendere la bilancia a favore della lavorazione continua, soprattutto in epoche in cui era rilevante la quantità di uva prodotta e nei territori con limiti d'acqua più o meno importanti.

L'inerbimento comporta una minore espansione della vite, meno germogli, una chioma meno ampia e meno densa, rese produttive più basse. Si è visto anche che si hanno mosti con contenuti zuccherini mediamente più alti e con un aumento dei polifenoli ed antociani (nelle uve nere). C’è però una minore presenza di azoto nel mosto disponibile per i lieviti. Queste conseguenze non sono così negative per una produzione votata più alla qualità che alla quantità.

Passare però dal vantaggio allo svantaggio a volte è un attimo in viticoltura. Se mal gestita, la competizione può realmente portare ad un deperimento troppo elevato delle viti. In questo caso il problema non sarà solo la scarsa quantità (che oggi può anche non farci paura), ma la produzione di un’uva povera di elementi fondamentali, non in grado di originare vini complessi ed interessanti.

Nella vigna inerbita la chioma è meno espansa e meno densa. Questo comporta anche una minore suscettibilità a diversi parassiti. Il contagio però può aumentare anche con una cattiva gestione della vegetazione, soprattutto se la si lascia crescere a dismisura. La massa vegetale può aumentare troppo l’umidità locale, soprattutto a ridosso delle viti, innalzando la possibilità d’infezione di diverse muffe o funghi.

La differenza, come sempre, sta nella gestione, nella sensibilità e capacità del viticultore di mantenere un rapporto equilibrato nella competizione fra copertura e viti. Solo così di hanno tutti i vantaggi dell'inerbimento e si minimizzano gli svantaggi.

L'inerbimento porta a degli indiscussi vantaggi ambientali che mancano nella lavorazione tradizionale. Preserva al meglio la qualità del suolo e tutti gli aspetti che ne derivano. Consente infine un numero minore di ingressi nella vigna, con risvolti ecologici e anche costi minori.

 

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La nostra vigna Campo Ferro a marzo

 

Aree di confine nella vigna

Prima di scendere nello specifico della gestione, considerate che il suolo della vigna non è tutto uguale. Ci sono due aree ben distinte, che hanno problemi e necessità di lavoro molto diverse.

Uno è il sottofila o sottofilare (nel caso del filare), comunque lo spazio a stretto ridosso delle viti. In questa zona la competizione è massima, con in più i problemi pratici di lavorare senza danneggiare le viti.

L’interfilare è la zona intermedia, dove la competizione sfuma, ci sono meno problemi pratici legati all’ingombro delle viti ma con molte altre variabili per le scelte operative.

 

 

La lavorazione continua del suolo

Fin dalle epoche più antiche si trova l'indicazione di lavorare il suolo almeno tre volte l'anno: al germogliamento, all'allegagione del frutto e all'invaiatura. L'introduzione della meccanizzazione ha portato ad interventi sempre più frequenti, al punto di eliminare tutta la vegetazione spontanea con lavorazioni continue e, in qualche caso, il diserbo.

In passato si vedevano più rischi che vantaggi nella competizione tra viti e flora spontanea, anche perchè erano momenti in cui la produzione cercava in genere di ottenere quantità. Quando si è iniziato a parlare in modo generalizzato di riduzione delle rese (soprattutto dagli anni '90), il suolo nudo ha costretto spesso a dover intervenire drasticamente in altri punti chiave per "risettare" gli equilibri della vigna.

Il metodo più tradizionale per ottenere il suolo nudo era (è) la lavorazione frequente. Gli strumenti più vecchi erano anche invasivi: si facevano vere e proprie arature o interventi che sminuzzavano le zolle in modo fine (come alcune zappatrici rotative molto usate fino agli anni '90). Nel tempo sono però emersi gli effetti negativi di questo modo di operare, legati soprattutto all’impoverimento della componente organica del suolo, ai fenomeni di erosione, al dilavamento, la formazione della cosiddetta "suola di lavorazione", l'asfissia radicale e le carenze nutrizionali (come la comparsa di clorosi ferrica). I frequenti ingressi con le macchine portavano ad un ulteriore compattamento del terreno e un alto consumo di gasolio, peggiorati nel caso di uso di mezzi grandi e pesanti.

Una lavorazione invasiva rischia anche di rovinare le radici della vite. La maggior parte di esse si trova nella fascia di suolo dove sono concentrate le sostanze nutritive, che è relativamente superficiale (non si spinge oltre i primi 50 cm). La massa principale delle radici si trova mediamente fra i 25 e i 45 cm di profondità, una zona che rischia di essere "massacrata" da lavorazioni troppo profonde.

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Il suolo nudo presenta maggiori di perdita di qualità, rischi di erosione e di minore portanza (da VVQ Edagricole)

 

 

Il diserbo alla francese

Già in passato si vedevano i limiti delle lavorazioni continue e si sono cercate strade alternative, con il fine di diminuire sempre più gli interventi. Dagli anni ’50 cominciò a diffondersi l’uso dei diserbanti, che sembravano superare tanti problemi della lavorazione continua, con maggiore velocità d’azione ed un numero inferiore di ingressi nella vigna.

In Italia sono stati usati (o sono usati anche oggi) quasi esclusivamente per il sottofila. L’uso sull’intera superficie è molto più diffuso in altre nazioni, come ad esempio la Francia. L’INRA aveva investito molto negli studi in questo ambito e diffuse la pratica detta della “non coltura” (“no tillage”), che prevedeva l’abbandono quasi totale delle lavorazioni a favore dei diserbi. Alla fine degli anni ’80 si era arrivati ad un’amplissima diffusione in tutta la Francia vinicola, con punte fino al 98% (nella Champagne). Ancora oggi è molto diffuso.

Nel tempo sono però emersi anche diversi problemi. Ad esempio, si è presentata la problematica del dilavamento di queste sostanze nelle falde acquifere. Si è visto che l’uso prolungato dei diserbanti causa comunque un’alterazione della struttura del suolo. Diventa più compatto in superficie, con minore ricircolo d’aria e infiltrazione d’acqua, oltre che una diminuzione della sostanza organica. Sembra che questi effetti siano legati alla riduzione della sua componente microbica. Infine, ci può essere sempre il rischio di uno sviluppo o selezione di piante resistenti.

Nel tempo alcuni prodotti che lasciavano residui, i disseccanti, sono stati prima limitati e poi abbandonati. Nonostante la ricerca si sia orientata a studiare prodotti più sostenibili, i diserbanti hanno però sempre raccolto molta diffidenza.

Nell’ultimo decennio, soprattutto, c’è stata una forte campagna contro il glifosate, il principio attivo ormai più usato al mondo. Gli studi scientifici sembrano dimostrare la sua biodegradabilità e la non nocività (con un uso corretto). I detrattori sostengono che però non si è certi dei suoi effetti e del fatto che non persista nell’ambiente. Fatto sta che ormai l’opinione pubblica si è schierata contro, il che sta portando la politica europea verso la prevalenza di un principio di precauzione. La regione Toscana, ad esempio, lo ha messo già al bando dal prossimo anno.

 

 

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il prato fiorito nella nostra vigna Campo Grande in primavera
L’inerbimento, ovvero la flora come risorsa

Michele si ricorda ancora di quando suo padre Attilio, negli anni '70, aveva iniziato a lasciare le vigne inerbite nell'azienda storica di famiglia Vallarom, in Trentino, mentre intorno il terreno era quasi tutto nudo. Erano gli anni pionieri della viticoltura integrata e sostenibile, nata negli anni '60.

Queste pratiche hanno iniziato ad uscire dalla nicchia soprattutto negli anni '90, grazie alla diffusione di una sempre maggiore sensibilità ambientale, al crescere dell'esperienza e al supporto di ricerche sempre più avanzate. La viticoltura di quegli anni si era poi orientata sempre più verso basse rese produttive e la competizione non faceva più così paura.

La viticoltura sostenibile non ha stravolto la vigna e le scelte del passato ma ha cambiato l'approccio. Non vede più la flora come un intralcio ma come una risorsa che, se ben gestita è in grado di mantenere equilibri ottimali in vigna, preservando nello stesso tempo le risorse naturali (suolo, biodiversità, acqua), e permettendo una riduzione importante degli interventi  (la "non coltura" o  "no tillage" cercato da tempo; ricordate?).

"Ben gestito" non significa seguire tutti una sola direttiva, ma valutare le scelte a seconda del proprio territorio, della singola vigna o anche particella. L’inerbimento sempre presente (permanente) è ottimale dove c’è una disponibilità di acqua molto buona in tutte le stagioni. Nei territori dove l’acqua è un po’ meno disponibile, può bastare a volte la lavorazione del solo sottofila per bilanciare la situazione. Se l'acqua è ancora più carente o ci sono momenti dell’anno di forte siccità, l’inerbimento può essere interrotto momentaneamente con delle lavorazioni. Queste possono riguardare l'intera superficie o solo parti, come ad esempio a filari alterni. Ricordiamo comunque che nei periodi siccitosi l'erba in genere secca spontamente, elimandosi da sola.

Le lavorazioni sono comunque notevolmente ridotte, sia come numero che come impatto, rispetto alle profonde e continue lavorazioni del passato. Oggi, nella gestione sostenibile, si usano attrezzi che stanno in superficie. Inoltre non sminuzzano troppo il suolo, ma mantengono il più possibile integre le zolle. La lavorazione ha comunque il beneficio di permettere il sovescio, cioè di interrare leggermente i resti vegetali ed i concimi, per rendere più veloce l'arricchimento del suolo in materia organica e componente minerale.

 

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Biodiversità di flora e fauna nella nostra vigna con prato spontaneo.
Prato spontaneo o seminato?

L’inerbimento naturale, che abbiamo scelto anche noi, integra la vigna nel suo ambiente naturale, nel paesaggio. La flora è molto varia (alta biodiversità). Ci sono molte specie che fioriscono a scalare per diversi mesi e creano un ambiente attrattivo per la micro-fauna locale, che altrimenti se ne andrebbe altrove. C'è poi l’aspetto assolutamente positivo del costo, che è pari a zero: la natura si rigenera da sé, senza spese per il seme ed i passaggi di lavoro per la semina.

Un prato abbandonato tende però nel tempo verso il predominio di alcune specie, soprattutto quelle a foglia larga (es. il tarassaco, la malva, ecc.) che sono anche fra le più competitive con la vite. Alcune, come il convolvolo e l'ortica, attirano una cicalina, un insetto che trasmette un fitoplasma (un organismo simile ai virus) che causa una malattia della vite detta "legno nero". Masse vegetali troppo dense aumentano l'umidità e il rischio di certe malattie. I tagli periodici evitano però questi pericoli. Inoltre favoriscono lo sviluppo di più essenze, soprattutto graminacee, che danno maggiore complessità.

Il prato spontaneo può non essere la scelta migliore in certe situazioni come, ad esempio, dove ci sono grossi problemi di erosione, se la flora spontanea è lenta a crescere o fatica a distribuirsi su tutta la superficie.

L’inerbimento artificiale richiede invece la semina di una o più specie scelte con precise finalità. Questo comporta un aumento degli interventi in vigna e costi più alti. Crea un ambiente, con una o poche specie, molto meno attrattivo per la micro-fauna del luogo.

Nelle zone mediterranee si preferiscono spesso alcune leguminose, che non hanno grandi necessità di acqua, si insediano velocemente e hanno una crescita veloce. Non sopportano però il calpestamento. Sono state a lungo utilizzate perché si pensava che, col sovescio, arricchissero il suolo in modo importante di azoto, ma ormai si è visto che non è proprio così. Consentono comunque un arricchimento generico in materia organica.

Il massimo risultato in questo senso si ottiene con le graminacee, che formano una biomassa più consistente. Sono più usate nel centro-nord perché hanno in genere una maggiore richiesta idrica. Sono miscele ben studiate per le diverse situazioni, composte da diverse festuche e loglietto, con crescita lenta e la capacità di formare un prato denso e compatto, che evita molto bene i fenomeni di erosione.

 

Il controllo dell’erba e la pacciamatura

Nel nord, o nei luoghi più freschi, la crescita dell'erba è continua dalla primavera fino all’autunno, per cui saranno richiesti diversi interventi di taglio. La semina artificiale può consentire di scegliere graminacee a crescita lenta. Nelle zone più siccitose e mediterranee, come la nostra, il problema è esclusivamente primaverile. Da giugno-luglio in poi la vegetazione secca spontaneamente e non è più un problema.

La pacciamatura è un sistema sostenibile, che usiamo anche noi in primavera, e che permette di controllare la vegetazione limitando gli interventi. Non è niente di nuovo: consiste nel lasciare in vigna l'erba tagliata e trinciata, così come i tralci delle potature triturati ed altri scarti vegetali. Questi formano uno strato organico-minerale che limita naturalmente la crescita vegetale. Nel tempo si degrada, diventa compost ed arricchisce il suolo.

Nel video sotto si vede un esempio di pacciamatura che facciamo a Guado al Melo, in questo caso nella capezzagna. Lo stesso si fa tra i filari.

https://youtu.be/0R9OH_vDiqo

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La nostra vigna Campo Ferro a fine aprile. Nel filare si vedono delle giovani viti protette con gli shelters.
Il sottofila, la difficoltà degli spazi stretti

La vegetazione a stretto ridosso della vite porta sempre più problemi che vantaggi: sottrae nutrienti e vigore alla vite, ne limita lo sviluppo radicale, può portare umidità e maggiori rischi di malattie e parassiti, … Per questi motivi in genere nel sottofila si preferisce mantenere il suolo nudo. Solo in quei territori dove c’è abbondanza d’acqua vi si può tenere la vegetazione, sempre che sia ben curata e non si notino squilibri nutrizionali della vite.

Il metodo più tradizionale per mantenere pulito il sottofila è la lavorazione del suolo, a mano o meccanica. In passato zappavano solo a mano. Si fa ancora oggi nelle vigne giovani, per non danneggiare le barbatelle, mentre in tutti gli altri casi si usano ormai mezzi meccanici.

A lungo i mezzi meccanici sono stati un rischio per questa fascia ristretta, perchè potevano rovinare le radici ed il piede della vite, rompendolo o scortecciardolo (col rischio di malattie). Questo problema ha spinto diversi produttori alla scelta del diserbo nel sottofila, a cui ho accennato sopra, che evita questo inconveniente.

Il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha però portato ad attrezzi che fanno questo lavoro in modo sempre più rispettoso, sia nei confronti delle viti che del suolo. Hanno sensori che rilevano in modo sempre più preciso la presenza della vite e la evitano. Le viti giovani che possono esserci nella vigna sono protette con dei cilindri detti “shelters” (foto). Inoltre tendono a stare in superficie, per evitare di danneggiare le radici.  Anche noi ne abbiamo provati e cambiati diversi negli anni. Per il viticultore non sono secondari certi aspetti di dettaglio che possono renderli più o meno performanti, anche a seconda del proprio tipo di suolo. È importante che lavorino bene e che consentano di procedere non troppo lentamente in vigna.

Esistono altri sistemi che non mi pare abbiano grande diffusione, per problemi vari (costi alti, bassa qualità, ecc.). Ad esempio ricordo il pirodiserbo, col calore. Un altro sistema è la pacciamatura del sottofila, ma in questo caso non funziona molto bene, se non in certe situazioni. Ad esempio in Trentino Alto Adige viene fatta con l’erba dell’interfilare, che forma grandi masse: ci sono attrezzi che la tagliano e l'ammucchiano nel sottofila.  Oppure si fa spargendo trucioli, vinacce esauste, cortecce, ecc. Infine, ci sono casi in cui la pacciamatura di vigneti appena piantati viene fatta col film plastico (come per gli ortaggi), ma è solo temporaneo.

Nel video sotto si vede il nostro attrezzo che lavora nel sottofila, scansando le viti.

https://youtu.be/LdBI46l_C8Q

 

la nostra vigna Campo Grande in estate. L'erba secca spontanemente e non si hanno più problemi di competizione.
la nostra vigna Campo Grande in estate. L'erba secca spontanemente e non si hanno più problemi di competizione.
Capacità di scegliere

Viste tutte queste premesse, capirete che le scelte possono essere diverse e ricche di sfumature, soprattutto in dipendenza delle condizioni ambientali delle vigne. Il viticoltore, conoscendo a fondo le proprie situazioni, decide le impostazioni migliori: che tipo d'inerbimento, come e quanto lavorare il suolo, se farlo in modo uniforme o solo a filari alterni, ecc.

Sta poi alla sensibilità e capacità di osservazione del vignaiolo capire come le vigne rispondono alle scelte fatte, vivendole ogni giorno e negli anni, facendo anche prove in aree limitate, non smettendo quindi mai di cercare d’imparare e migliorare.

Sono diversi i punti nodali da tenere sotto controllo per capire se la gestione richiede (o meno) qualche variazione. Si deve valutare lo stato di crescita e salute delle viti, oltre che la qualità e quantità dell’uva ottenuta. Per quando riguarda la sostenibilità ambientale, si fanno test di biodiversità, analisi del suolo e dell’acqua, oltre che dell'assenza di residui nel vino.

Bisogna anche saper cogliere i cambiamenti delle annate e delle variazioni climatiche di periodi più lunghi, cambiando l’impostazione di conseguenza. Ad esempio noi, dopo anni di inerbimento permanente, abbiamo fatto alcune variazioni, a causa del trend di innalzamento medio delle temperature dell’ultimo decennio e di cambiamenti nella piovosità locale. Siamo passati, in alcune zone, ad un inerbimento con lavorazioni a filari alterni, con rotazione periodica.

Curare la vigna è un percorso di crescita, non di stasi.

 

 

Vigne da Instagram

6a00d8341c018253ef0167673f9863970b-640wiChiudiamo questo capitolo con questa bella immagine che sembra essere uscita da un libro di agronomia ottocentesco. Non è rara ormai. Ultimamente se ne vedono sempre più sui social. Mostrano il ritorno ad usare animali in vigna, come in passato, al posto del trattore. Si vedono soprattutto i cavalli, raramente i buoi. Nelle vigne italiane, storicamente, questi lavori si facevano soprattutto con gli asini o anche piccole mucche.

Sicuramente sono immagini pittoresche e di grande effetto, che rispecchiano una certa tendenza nostalgica di oggi a rimpiangere "i tempi che furono" dell’agricoltura. Era meglio allora? Era peggio? Sì e no: dobbiamo saper distinguere fra l’eredità utile del passato e quella no, se non vogliamo solo una viticoltura da Instagram.

La lavorazione del suolo col traino animale è una pratica molto evocativa, ma di fatto è poco sostenibile.

Come avete letto finora, oggi la sostenibilità si dirige in un'altra direzione, verso forme di non lavorazione. Nel sottofila, dove eventualmente si deve intervenire un po' di più, è impossibile (ai tempi zappavano a mano). Non è neppure il sistema migliore per la qualità del lavoro: come ho spiegato sopra, oggi ci sono attrezzi che permettono di gestire il suolo e l’integrità delle viti in modo molto migliore rispetto a quelli di vecchia generazione.

Comunque, è fattibile, ragionevolmente, solo per vigne minuscole, usate come “immagine” o da parte di hobbisti. È poco proponibile in tutti gli altri casi: è faticosa per l’animale e per l’uomo, oltre che troppo lenta. I tempi di crescita delle erbacce e delle viti sono rapidi in primavera: in poche settimane cambia tutto ... e sono tantissimi i lavori che incalzano. Infine, non scordiamoci che i lavori in vigna sono tanti e molti richiedono per forza un trattore. Parlo del taglio dell'erba, delle trinciature, delle cimature, ecc.

Non perdiamo di vista quello che ci serve veramente: una sostenibilità reale e razionale, di sostanza, capace di garantire un futuro al nostro lavoro e alla nostra terra.

 

Bibliografia:

"Viticoltura di qualità", Mario Fregoni, 1998, Edizioni l'Informatore Agrario.

"La vite e il vino", Renzo Angelini ed altri, 2007, ed. ART.

"Manuale di viticoltura", Alberto Palliotti ed altri, 2018, Edagricole.

"Difesa sostenibile delle colture", Paola Battilani, 2016, Edagricole.

"La nuova viticoltura", Alberto Palliotti e altri, 2015, Edagricole.

"View from the vineyard. A practical guide to sustainable winegrape growing", Clifford P. Ohmart, 2011, ed. The Wine Apprecciation Guild.

"Vine roots", E. Archer and D. Saymaan, 2018, The Institute for Grape and Wine Sciences (IGWS), Stellenbosch University.


Tutti i giorni Earth Day

Oggi è il Giorno della Terra ma lo dobbiamo ricordare tutti i giorni, più con le azioni che con le parole. Noi viticoltori sappiamo bene che se il nostro lavoro non è sostenibile, non può avere un futuro.

Per questo scegliamo ogni giorno le migliori pratiche attuali di viticoltura sostenibile integrata, che garantiscono 0 residui nel vino e nell’ambiente, oltre che una ricca biodiversità in vigna.

Per questo abbiamo costruito una cantina interrata, che “sparisce” nel paesaggio, che ci permette di risparmiare il 70% di energia, con un sistema di riciclo dell’acqua piovana che riduce i consumi del 40% (per tutti gli usi interni per cui non serve acqua potabile).

Per questo in cantina lavoriamo con sapienza artigianale, rispettosa delle uve e dell’esaltazione del nostro patrimonio più prezioso: il nostro territorio.

Trovate più informazioni sul nostro sito web.


I lavori in vigna di aprile: la sostituzione delle viti

Fa parte della normale vita di un vigna: ogni tanto, soprattutto andando in là con gli anni, anche le viti possono morire. Succede per tanti motivi: malattie o parassiti che prendono il sopravvento, colpi di freddo o per semplice fine del ciclo vitale. Quindi, togliamo le viti morte e al loro posto piantiamo nuove barbatelle, le piccole viti.

 

Prima scaviamo per togliere le radici della vecchia vite e riempiamo di nuovo la buca. Questo passaggio ammorbidisce la zolla di terra che cos' è pronta per l'impianto.

Per piantare le barbatelle poi Michele usa la gruccia, lo strumento che vedete nella foto e nel video. È una barra che finisce con due punte. Fra queste è possibile inserire la piantina e, facendo forza sulla barra, piantarla nel terreno senza danneggiarla. Sono infatti le punte a premere e a scavare nel terreno. Si tratta di uno strumento da lavoro antichissimo. Risale ai tempi degli antichi Romani. Allora si chiamava “pastinum”.


Le vigne dell'antica Roma, fra "l'otium" del proprietario ed il lavoro del vignaiolo

(continua da qui)

Secondo Columella, chi vuole iniziare un'attività agricola non deve mancare di tre cose: la conoscenza, la volontà di fare e la capacità di spendere. In realtà, dice, potrebbero bastare le prime due. Tuttavia ci ricorda, con ironia neanche troppo sottile, che la possibilità di spendere torna utile soprattutto a chi manca di conoscenza, perché così può supplire agli errori che fa.

Niente di più vero!

[one_second][info_box title="La quieta villa tra le vigne di Plinio il Giovane" image="" animate=""]

Plinio_il_Giovane sulla facciata del Duomo di COmo
La statua di Plinio il Giovane sulla facciata del Duomo di Como

In una lettera all'amico Domizio Apollinare (detta ""della villa in Tuscis"), Plinio il Giovane racconta con orgoglio della splendida vista sulle sue ampie vigne, che può godere dalla sua villa nell'Alta Valle del Tevere.

Plinio era nato a Como il 61 o il 62 d.C. (morì nel 113-114) ed era nipote del celebre (e da me più volte citato) Plinio il Vecchio (zio per parte di madre). Era un avvocato ed un alto funzionario dello stato. Aveva grandi proprietà in diverse parti d'Italia ma la più amata sembra che fosse proprio la tenuta della valle del Tevere, in Etruria (chiamata Tuscia dai Romani). Si trova nell'attuale Umbria, tra San Giustino e Città di Castello.

Non siamo più ai tempi dei 100 jugeri di Catone o della piccola (ma meravigliosa) vigna di Palemone. Stiamo parlando di un grande latifondo, che Plinio ha soprattutto ricevuto in eredità ed, in piccola parte, ingrandito personalmente.  Possedeva proprietà terriere per un totale stimato di circa 10.000 ettari, sparsi fra una villa sul mare, quella sulle colline della Tuscia e due sul Lago di Como, oltre che una casa signorile a Roma e una a Como. La proprietà della Tuscia comprendeva ottomila jugeri, circa 2.000 ettari (1 jugero è più o meno ¼ di ettaro), con diverse coltivazioni, che gli rendevano un affitto di 400.000 sesterzi annui.

Siamo ben lontani dalla figura del vignaiolo. Infatti lo stesso Plinio dice che ama questa tenuta più delle altre essenzialmente perché la ritiene la più comoda e di maggior agio, abbastanza lontana da Roma da permettergli una perfetta tranquillità. Qui poteva dedicarsi in pace al suo otium che, per l'intellettuale romano dell'epoca, era il tempo che poteva impiegare allo studio e alla riflessione, quando era libero dalle incombenze della vita politica e pubblica.

Plinio rappresenta ancora il grande proprietario che ben gestisce le sue proprietà, non il latifondista che le dedica soprattutto al pascolo, abbandonandole al degrado del saltus. Scrive chiaramente, con la sua mentalità patrizia tradizionale, che per lui l'unico guadagno legittimo è quello che deriva dalla terra. Infatti non impiegò il suo patrimonio in altre forme d'investimento. Nei suoi scritti ammette, non si sa quanto onestamente, di non sentirsi ricco. Afferma che le sue rendite, fra l'altro oscillanti (come normalmente succede in agricoltura), sono appena sufficienti per permettergli di sostenere il decoro richiesto dalla sua posizione di senatore. Gli consentono giusto una vita frugale, con la possibilità di concedersi solo ogni tanto qualche spesa extra. Fu oculato comunque anche in queste, oltre che filantropo: a parte l'acquisto di statue e la costruzione di templi nelle sue proprietà, donò un appezzamento di terra alla sua ex-nutrice e fece diverse donazioni alla sua città natale, Como. Vi costruì una biblioteca pubblica, creò una cassa alimentare per i poveri, dando in concessione delle sue proprietà. Nel testamento, lasciò in eredità alla città degli edifici termali.

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Ricostruzione della villa in Tuscia di Plinio

Tornando alla lettera e alla sua tenuta in Tuscia, egli descrive con evidente amore il paesaggio appenninico. Si tratta di un ampio anfiteatro contornato dai monti ricoperti dai boschi. Le coltivazioni si estendono sia in pianura che sulle colline, "ricche di terra grassa".

"Ai loro piedi e per ogni lato si stendono vigneti che intrecciano in lungo e in largo un’unica trama; dal loro limite, quasi dal loro margine in basso, si dipartono viti alberate" (Sub his per latus omne vineae porriguntur, unamque faciem longe lateque contexunt; quarum a fine imoque quasi margine arbusta nascuntur).

Le prime pendici delle colline sono completamente rivestite da vigneti, vinea, le viti basse aggiogate. Circondano completamente la villa di Plinio e, come racconta, sembrano quasi entrare nelle stanze.  Nella zona più pianeggiante si trovano invece le lunghe file degli arbusta, le viti maritate, alternate ai campi e ai prati. Purtroppo, come potreste leggere in altre traduzioni di questa celebre lettera, chi non conosce la viticoltura romana traduce arbusta con boschetti o anche siepi (sic!). La vite maritata è stata ed è ancora spesso persa nella traduzione, come avevo già raccontato qui.

La descrizione di Plinio è stata confermata dalle ricerche archeologiche nella valle del Tevere. Le zone pedecollinari erano state scelte dai ricchi per le loro ville ed erano dominate dai vigneti intensivi, coltivati con il lavoro degli schiavi. La pianura era invece soprattutto dei coloni (piccoli agricoltori). Originariamente erano proprietari di appezzamenti assegnati in passato con la centuriazione. Poi, all'epoca di Plinio, erano diventati dipendenti dei latifondisti.

Sembra che Plinio, come tanti altri proprietari, vendesse l'uva in pianta a degli imprenditori che si occupavano della vendemmia, della produzione e vendita del vino. Il mercato principale del prodotto era Roma città. La cosa curiosa, ma che sembra frequente all'epoca, è che Plinio (o più facilmente il suo amministratore) non si preoccupasse di vendere solo l'uva della proprietà padronale ma anche dei coloni. Può sembrarci normale nel caso in cui il colono pagasse in natura (una quota di uva o vino), sistema detto colonia partiaria. L'aiuto era però anche nel vendere la parte di prodotto del colono. Oltre tutto, succedeva lo stesso anche nel caso che il colono versasse l'affitto in denaro (detto locatio-conductio). In questo caso, il latifondista aiutava il colono a monetizzare il suo lavoro, assicurandosi così di ricevere la sua spettanza. Il rapporto sociale sembra molto equilibrato, ancora lontano dallo sfruttamento da "servi della gleba" che i coloni subiranno nelle epoche successive o in altri territori.

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Quest'opera del toscano Antonio Tempesta (1599) ci mostra una campagna identica a quella descritta da Plinio. In primo piano si vede la vendemmia da viti maritate agli alberi. Più indietro, intorno all'edificio rurale, c'è la vinea, la vigna bassa.

La differenza vinea-arbusta non era solo sociale, ripartita fra signori e coloni (vedete anche qui). In un'altra lettera Plinio sottolinea come fosse importante la diversificazione in agricoltura per essere sicuri di avere una rendita. Emerge quindi che la differenzazione in vinea, arbustum e campi era una strategia ben ponderata dei grandi proprietari, per non correre troppi rischi economici.

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La coltivazione promiscua di viti alberate in Umbria (1966, da Braconi)

Il rapporto fra vinea e arbusta, in questo territorio e tanti altri dell'Italia, subirà nei secoli a venire oscillazioni altalenanti, senza che nessuno dei due sistemi scompaia mai del tutto (se non ai nostri giorni). La poca viticoltura dell'epoca Medievale, ristretta intorno ai borghi e portata anche dentro le mura di città e castelli, vedrà prevalere la vinea, più adatta ai piccoli spazi. In epoche successive, soprattutto dal XV-XVI sec., con la possibilità di tornare ai campi aperti, si ebbe il netto prevalere dell'arbusta, la vite maritata, e delle grandi estensioni di coltivazioni promiscue (come nell'immagine). Infine, la viticoltura contemporanea (dalla metà del Novecento circa), sempre più specializzata ed anche meccanizzata, ha portato all'assoluta affermazione della vinea e la definitiva scomparsa dell'antica cultura dell'arbustum, la vite maritata all'albero.[/info_box][/one_second]

La conoscenza, quindi, per Columella è essenziale ed è il motivo per cui ha sentito l'esigenza di scrivere il suo trattato, De Re rustica (60 o 65 d.C.). Sicuramente è la miglior fonte per capire com'era il lavoro del vignaiolo dell'epoca. Non è un'opera letteraria, ma un vero e proprio trattato tecnico. È talmente preciso, particolareggiato, con osservazioni razionali e da grande osservatore, da essere considerato il primo testo agronomico della storia, rimasto come riferimento fino alla fine del Diciottesimo secolo. Ciò non toglie che Columella rappresenta l'apice di conoscenze della sua epoca, un momento (come tanti nella storia) nel quale la conoscenza non era di certo diffusa in modo universale.

falx vineatoriaUn aspetto generale e più pratico, che mi ha colpito leggendo dalla viticoltura romana, è che all'epoca avevano un numero incredibile di attrezzi agricoli, con tante funzioni specifiche, molti di più di quelli tradizionali nostri. Per i lavori di taglio in vigna c’era una falce usata solo per questo scopo, chiamata falx vineatica o vineatoria, il simbolo stesso del vignaiolo. Da questa è derivato il pennato, usato fino a tempi recenti in tutto il centro e sud d'Italia. Columella si raccomanda, per tutti i lavori di taglio, di fare sempre grande attenzione a non ferire troppo la vite, per evitare malattie e parassiti, come sappiamo bene anche oggi. Le ferite, consiglia, devono essere chiuse con mastice (resine di alberi) oppure terra umida mescolata con morchia.

 

Le vigne

Columella elenca i sistemi di coltivazione della sua epoca. Ho già parlato di alcuni di essi, ma vediamoli qui riassunti, come li raggruppa l'autore.

arbustum italicum
Arbustum italicum, disegno ottocentesco

La vite maritata o alberata (arbustum) era il sistema tradizionale romano ed il più diffuso, di cui ho ampiamente già parlato in molti post precedenti, descrivendone l'origine e le peculiarità (qui, qui, e qui). Ricordo rapidamente le descrizioni che ne danno Plinio e Columella. L’arbustum poteva essere all’italiana (italicum), diffuso nell'Italia centrale, con le viti (in genere due) arrampicate su un singolo albero. Columella spiega che l'olmo è il preferito perché cresce bene in tanti tipi di suolo e le sue foglie sono molto adatte a foraggiare i buoi. Il pioppo non è molto gradito dagli animali ma è usato in alcuni territori (come la Campania, come noi sappiamo).  Migliore è il frassino, che si usa nei terreni scoscesi e montani, non adatti all'olmo. Oltre tutto, le sue foglie sono ottime per capre e pecore. Catone citava anche il fico. In Etruria, patria originaria dell'arbustum, sappiamo che si usava principalmente l'acero.

Il secondo sistema è quello gallico (gallicum) o rumpotinum, presente soprattutto nell'Italia del Nord, nel quale i tralci di vite (detti traduces) passavano da albero ad albero. Si usano alberi non molto frondosi, fra cui l'olmo ben potato, l'acero, il corniolo, il carpino e l'orno. Il salice si utilizza solo nei terreni molto umidi. I tralci, se non riescono a raggiungersi fra albero ed albero, sono congiunti tramite una verga (pali orizzontali al suolo).  Possono anche essere sorretti in mezzo da sostegni verticali.

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Arbustum gallicum, simile alle alberate della pianura Padana del Novecento, foto da Angelo Sarti

Questi due sistemi sono rimasti in Italia fino a metà circa del Novecento.

Le viti aggiogate sono tutti i tipi di coltivazione in cui la vite era sorretta da supporti di varia natura, dal singolo palo alle strutture più complesse, fatte da pali, canne, corde e sarmenti. Il sistema a spalliera era detto jugatio directa. Da esso derivano tutti quelli moderni. Varrone dice che dà un ottimo vino perché le viti non si fanno ombra tra loro. C'erano poi sistemi particolari di alcuni territorio, come ad esempio la vite characata dell’Arpinate, dove la vite era circondata di canne, ogni ramo era appoggiato ad una di esse e i tralci erano piegati in circolo. Poi c’erano i pergolati, chiamati jugatio compluviata (dal nome dei compluvi delle case, nel disegno sotto), usati ancora oggi, con diverse modalità.

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Viti aggiogate, con pali e canne, non molto diverse da quelle di epoca romana (Vendemmia al colle Palatino, Bartolomeo Pinelli, 1840)

Columella dice che, fra le tante forme di viticoltura delle province, apprezza molto le viti ad alberello senza sostegno, che chiama “surrette”. Descrive anche la vite strisciante, “strata”: è un alberello con i tralci serpeggianti per terra. Columella dice che è usato in climi estremi. I tralci sono sovrapposti l’uno sull’altro per evitare che l’uva tocchi terra e possa marcire.

Siccome fra le viti era comune coltivare grano o altro, in genere si tendeva a lasciare spazi da due fino a dodici metri, per passarci agevolmente con l’aratro trainato dai buoi. Nelle vigne delle zone più impervie si stava più stretti, fino a un metro e mezzo, e i lavori si facevano con la zappa. Sia Columella che Plinio sostengono che l’impianto migliore delle vigne è quello a quinconce, come il numero 5 su un dado, utile per l’esposizione ma anche “perché offre un grato aspetto” (Plinio).

compluviata
pergolato romano

Gli animali erano considerati uno dei pericoli più grandi delle vigne, soprattutto quelli selvatici o le greggi sfuggite al controllo. Le vigne basse erano sempre recintate, soprattutto con siepi. Quelle alberate potevano essere lasciate aperte, con la possibilità anche di usarle per il pascolo, salvo vi fossero in mezzo altre colture da proteggere. I buoi, che trainavano l'aratro o il carro, erano dotati di museruole, altrimenti avrebbero mangiato i germogli e le tenere foglie della vite.aad3

 

Propagazione della vite ed impianto

Una parte molto lunga e dettagliata del trattato di Columella è dedicata alla propagazione della vite, cioè l'accurata scelta, creazione e gestione della talea. La talea era chiamata malleolus (rimasto nel toscano di tempi più recenti come "magliuolo"), la barbatella da semenzaio viviradicem. Ricordiamoci che loro avevano la fortuna di poter coltivare la vite "franca di piede", cioè intera, non un innesto come dobbiamo fare oggi per colpa della fillossera.

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Erano talmente precisi che, per controllare che le vangature fossero ben fatte e regolari, usavano uno strumento di misura detto ciconia, una specie di regolo. A destra, quello comune, a sinistra quello ideato da Columella, per una precisione ancora maggiore, dotato di filo a piombo.

Lo scasso delle vigne era fatto in diversi modi. Il pastinatio, testimoniato dalle fonti scritte, consisteva nello zappare tutta la superficie, a circa 60-90 cm di profondità. Altri sistemi prevedevano invece solo lo scavo di lunghe strisce di terreno, dove si impiantavano le viti. A seconda del tipo di suolo si scavavano delle fossette, dette sulci, o delle trincee più profonde, dette scrobes. In alcuni siti archeologici sono state trovate tracce di questi scavi perché, in terreni vulcanici poco profondi, erano arrivati ad intaccare anche lo strato di tufo sottostante. Questi sistemi sono rimasti in Italia fino a tempi recenti, fino alla diffusione dei mezzi meccanici.

pastinumIn vigna si facevano anche diversi tipi di canalizzazioni, alcune per drenare l'acqua dai terreni più stagnanti, altre per l'irrigazione nei terreni più siccitosi.

Sul fondo della buca dell'impianto mettevano delle pietre, vinacce mescolate a letame, sia per nutrimento che per "riscaldare" le barbatelle. Poi riempivano le buche con la terra. Se il suolo era molto magro, si consigliava di aggiungere nella fossa anche terra grassa.

I magliuoli erano piantati ad entrambi i lati delle fosse, in modo che uscissero dalle parti opposte. Per piantare le giovani viti usavano il pastinum, un lungo bastone che finiva con due rebbi. In secoli più recenti si chiamerà trivella nel Lazio e gruccia in Toscana. Lo usiamo ancora oggi. Le vecchie viti sostituite erano dette ripastinate.

Le viti giovani erano fissate ad una canna perché crescessero diritte, per condurle poi alla forma di allevamento, come facciamo oggi. Soprattutto nel primo anno consigliano che siano ben seguite, irrigate se serve, accuratamente zappate e spampinate.

 

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Michele Scienza con la gruccia (pastinum) per piantare le barbatelle
Potatura

Plinio racconta che fu all'epoca di re Numa che s'iniziò a potare le viti. Sembra che all'inizio i vignaioli fossero ritrosi a salire sugli alberi (la vite alberata, la forma originaria romana), che erano anche molto alti, per paura di cadere (“pericula arbusti”). Venne introdotta allora la pratica di garantire ai lavoratori delle vigne anche l’eventuale copertura delle spese funebri.

Parecchi secoli dopo Numa, Columella scrive, in modo molto moderno, che la potatura deve essere fatta con tre finalità: pensando alla produzione del frutto, scegliendo bene i migliori tralci, studiando di rendere la vite longeva. Per una potatura ottimale si deve ricordare la produzione dell’anno precedente di ogni pianta. Distingue e spiega la potatura lunga e quella corta, per le diverse forme di allevamento della vite. La vite strisciante invece ha solo una potatura molto corta.POT Lo sperone (il moncone che resta del tralcio dopo la potatura corta) lo chiama custodem, ma dice che è detto anche resecem o praesidiarium.

Columella dice che si può potare ad ottobre, dopo che le foglie sono cadute e sempre che i sarmenti siano ben maturi. Se l'inverno però è troppo freddo, meglio aspettare dopo la metà di febbraio (è corretto, perché alcune varietà sopportano male i geli invernali se sono già state potate). Comunque egli scrive che prima si pota e più si avrà legno, più tardi si pota e più si avrà frutto. In realtà oggi sappiamo che il tempo della potatura influisce soprattutto sul tempo di germogliamento primaverile della vite. Le potature troppo precoci fanno germogliare presto la vite, esponendola maggiormente ai rischi di gelate tardive. (... continua...)

 

 

Bibliografia:

"De re rustica", Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846 (preferisco le traduzioni dell'Ottocento perchè, avendo una viticoltura e tecniche di produzione del vino più simili a quelle antiche delle nostre, sanno spiegare meglio i concetti e trovare le parole giuste).

"Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana", a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.

"Storia dell'agricoltura italiana: l'età antica. Italia Romana" a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002

"Le proprietà di Plinio il Giovane", V. A. Siragola, 1957

"Territorio e paesaggio dell'Alta Valle del Tevere in età Romana", Paolo Braconi, 2008, in F. Coarelli - H. Patterson (eds.) Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New research in the upper and middle river valley, Atti del Convegno, Roma, British School at Rome, 27-28 febbraio 2004, Roma 2008, pp. 87-104

"La villa di Plinio il Giovane a San Giustino", Paolo Braconi, 2008, in F. Coarelli - H. Patterson (eds.) Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New research in the upper and middle river valley, Atti del Convegno, Roma, British School at Rome, 27-28 febbraio 2004, Roma 2008, pp. 105-121

"La villa di Plinio il Giovane in Etruria, Giovanni Caselli,

“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883, .

“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, .

“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961, .

“In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in età romana”, Paolo Braconi, Archeologia delle vite e del vino in Etruria" A. Ciacci - P. Rendini - F. Zifferero (eds.), Archeologia della vite e del vino in Etruria (Atti Scansano 9-10 settembre 2005), Siena 2012, pagg. 291-306.

“Catone e la viticoltura intensiva”, Paolo Braconi.

“Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana, Attilio Scienza.

“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.


Rinnovo nel nostro museo della vite e del vino

Questo tempo sospeso è l’ideale per sistemare la cantina, per essere ancora più belli ed accoglienti per quando potrete tornare da noi. Questi cartelli si erano rotti per il vento. Ne ho approfittato per rinnovarli.

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La meravigliosa vigna di Palemone e altre storie viticole della Roma antica

Avere una vigna nell'antica Roma era considerato un affare interessante. Catone la mette al primo posto in agricoltura, come l’attività più redditizia e così sarà per secoli. Tuttavia non era solo una questione economica.

L'agricoltura, ma soprattutto la viticoltura, era considerata l'attività più vicina ai valori fondanti dei padri, al legame salvifico con la terra e la natura, lo stile di vita ideale, un'occupazione in grado di elevare l'uomo moralmente, al contrario del vizio e dalla corruzione della vita di città, ... Questa "nobiltà" era anche una questione di classe. Infatti i patrizi erano i proprietari terrieri per eccellenza, per cui lodavano ed esaltavano volentieri questa loro attività peculiare, mentre era un traguardo di affermazione sociale per gli altri. Secondo Cicerone (De Officiis), "fra le occupazioni nelle quali il guadagno è assicurato, nessuna è migliore dell'agricoltura, né più proficua, né più piacevole, né più consone all'uomo libero". Eppure egli faceva altro nella vita. Ciò non toglie che per lui la viticultura, nello specifico, fosse l'attività vagheggiata per la vecchiaia.

Non manca in tutto ciò, come in tutte le epoche a venire, una buona dose di idealizzazione della vita agricola, soprattutto da parte di chi (poeti, letterati o ricchi proprietari) non si è mai confrontato realmente con la dura vita dei campi e con l'incertezza di un'attività dominata dagli alti e i bassi dell'annata.  Comunque, proprio in questo periodo il mondo agricolo entra nell'Arcadia grazie a Virgilio, che definisce così un topos letterario di grande successo nei secoli a venire. L'Arcadia di Virgilio non è più solo il paesaggio naturale ma anche quello agricolo, dove la Natura benigna dona in abbondanza i suoi frutti all'uomo abile nel suo lavoro.

Noi però non siamo letterati ma vignaioli. Chi vive veramente della terra può amarla senza mitizzazioni o visioni bucoliche, conoscendone bene anche i risvolti più difficili. Di certo gli agricoltori Romani non li ignoravano, come d'altra parte Cicerone, che descrive chiaramente i rischi e gli inconvenienti del lavoro agricolo in una delle sue celebri orazioni (Ad Verrem).

Vediamo ora di capire la vera vita del vignaiolo dell'epoca, di cui racconterò in questo e altri post a seguire. Inizio col ricordare un po' di storia agricola romana, per poi andare a vedere chi erano i nostri colleghi del tempo e poi come lavoravano. Tanto è cambiato da allora, eppure in tanti aspetti si ritrova anche il nostro presente.

[one_second][info_box title="La meravigliosa vigna di Palemone

" image="" animate=""]

bsba400503300lUn esempio vivido della viticultura dell'epoca ce lo fornisce Plinio il Vecchio, il quale racconta di una vigna meravigliosa e la porta come esempio del grande valore di questa attività.

Era di proprietà di un grammatico (=insegnante degli studi superiori) molto famoso al suo tempo, Quinto Remmio Palemone (Quintus Remmius Palaemon). Era un liberto originario di Vicenza, un ex-schiavo che non solo si era affrancato, ma era diventato molto ricco e celebre. Viene ricordato per il suo contributo alla lingua latina, per aver introdotto lo studio delle opere di Virgilio nelle scuole, ma anche per i suoi vizi e la sua arroganza.

Remmius Palaemon, QuintusPalemone, nel periodo di Nerone (55 o 57 d.C.), acquistò un terreno incolto nell’Ager Nomentanus, al decimo miglio fuori Roma, di poco meno di 60 jugeri (circa 15 ettari). La zona era considerata fra le più rinomate per il vino, dopo l’area del Falerno. Plinio racconta che Palemone aveva acquistato quel terreno per poco, anche se poi aveva dovuto investire diverso denaro per l’impianto del vigneto, che era un’operazione molto costosa, oggi come allora. In totale aveva speso seicentomila sesterzi.

Aveva dato l’appalto dei lavori (lo scasso, la realizzazione della vigna e poi anche la sua gestione) al viticoltore suo vicino, tale Acilio Sthenelo, anche lui un liberto. Plinio ci fa sapere che questi era un vignaiolo di provata capacità e che era stato proprio lui a consigliare Palemone in tutto questo affare. L'appaltatore, detto allora conductor, oggi si chiama contoterzista (cioè un agricoltore che, oltre i propri campi, lavora anche quelli di altri, grazie alla propria professionalità, manodopera ed attrezzi).

Dando in appalto il grosso dei lavoro, Palemone teneva pochissimi operai e vendeva l'uva in pianta. Chiaramente il grammatico era un imprenditore che voleva trarre il massimo profitto dalla sua vigna col minimo delle spese. Plinio stesso sottolinea che Palemone non era stato spinto dall'amore della viticoltura in tutto questo, ma dalla sua enorme e ben nota vanità. Plinio forse è sferzante anche per snobismo di classe? A Roma uno schiavo poteva anche ascendere socialmente ma si portava dietro tutta la vita il marchio delle sue origini. Tuttavia,  allora come oggi, fra i ricchi e i potenti, era sicuramente di vanto avere la vigna!

Ad ogni modo, Plinio scrive che, nell’ottavo anno (l'anno di ingresso nella piena produzione per una vite maritata), il grammatico arrivò a guadagnare 400.000 sesterzi dalla vendita dell'uva, 2/3 di quanto aveva pagato l'intero vigneto. Secondo Plinio, è un rendimento molto importante. Lo paragona agli utili che si ricavavano dal commercio con le Indie.

Anche Svetonio racconta della vigna meravigliosa (in De Grammaticis et rhetoribus). Sostiene che un ceppo di queste viti arrivava a dare ben 360 grappoli! Questo numero spropositato forse è un'iperbole per rimarcare l’eccellenza della vigna (Svetonio non era di certo un agronomo).  Tuttavia, il sistema tradizionale romano, la vite maritata (arbustum), il più diffuso allora nel centro Italia, può dare veramente un'elevatissima produzione per ceppo.

Ad ogni modo, la vigna era diventata ormai molto famosa. Al decimo anno Seneca volle acquistarla a tutti i costi, anche se dovette "abbassarsi" a fare affari con un personaggio che mostrava di disprezzare. Plinio ci fa sapere che egli la comperò per quattro volte il prezzo pagato inizialmente da Palemone (due milioni e quattrocentomila sesterzi), concludendo così in bellezza la sua dimostrazione della grande valenza economica della viticoltura.

Seneca l'acquistò evidentemente solo per motivi di prestigio, non certo per fare un investimento vantaggioso. Ancora oggi succede che un personaggio facoltoso comperi a carissimo prezzo una vigna o un’azienda viti-vinicola di grande nome o di un territorio molto famoso.

Seneca non continuò con la vendita dell'uva, ma vi produsse direttamente il vino. Chissà se fu quest'attività ad ispirargli quei passi, nelle sue opere, in cui il vino o la vigna diventano metafore dell'esistenza umana, come ad esempio:

"Ma tu (Lucilio), fin d'ora, serba gelosamente tutto quello (il tempo) che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché - ci ammoniscono i nostri vecchi - «è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore."[/info_box][/one_second]

Un popolo di agricoltori.

Roma, come ogni civiltà, nacque sull'agricoltura che, inizialmente, era solo di sussistenza. Varrone racconta che, alle origini, Romolo assegnò a ciascun cittadino un appezzamento di terra coltivabile pari a due jugeri (all'incirca mezzo ettaro), lo stretto necessario per vivere. Secondo la tradizione, la classe dei patrizi discendava da questi primi abitanti - possidenti di Roma. L'immagine classica del Romano antico ideale era infatti quella dell'agricoltore, che lascia l'aratro o la vigna solo per impugnare la spada quando la patria chiama. Catone ci ricorda che, per lodare un uomo, si usava dire che fosse "un buon marito e un buon agricoltore".

Design_for_a_Stained_Glass_Window_with_Terminus,_by_Hans_Holbein_the_YoungerNel periodo più antico sembra che si cercasse di mantenere un certo equilibrio nelle proprietà terriere: si pensava che l'eccessivo arricchimento di qualcuno avrebbe destabilizzato l'intera società. Era però necessario contenere la cupidigia umana e Numa Pompilio, il grande legislatore, istituitì le feste Terminalia, in quella frammistione tipicamente antica di legge e religione. Fu ordinando ai Romani di delimitare i propri campi con dei cippi, consacrati a Giove Terminus, nume protettore di ogni diritto e di ogni impegno (Juppiter Terminus, poi diventato una divinità indipendente, il dio Terminus). I confini erano così resi sacri ed inviolabili. Chi lo faceva compiva uno fra i delitti più esacrabili e diventava "sacer". Questo termine si può tradurre come sacro ma nello stesso tempo maledetto, una persona che aveva compiuto azioni così terribili da porsi al di fuori della stessa società degli uomini, entrando in un ambito di appartenenza agli dei. Non era neppure perseguito dalla legge, ma chiunque avrebbe potuto ucciderlo impunemente. Numa introdusse in queste feste anche la misura delle proprietà. Se superavano i 50 jugeri (circa 13 ettari), l'eccendenza era confiscata dallo stato. Tullio Ostilio iniziò a concedere queste terre requisite ai nullatenenti.

Cincinnato abbandona il suo aratro per essere eletto dittatore e combattere per Roma (Juan Antonio Ribera, 1806).
Cincinnato abbandona il suo aratro per essere eletto dittatore e combattere per Roma (Juan Antonio Ribera, 1806).

La storia agiografica romana ci rimanda figure di straodinaria integrità circa questo ideale romano della morigeratezza, cioè di una vita regolata dalla temperanza e dalla sobrietà. Ricordiamo ad esempio il generale Curio Dentato che, nel 285 a.C., rifiutò 50 jugeri in Magna Grecia che il Senato voleva donargli, per ringraziarlo di aver sconfitto Pirro. Disse che non voleva dare il cattivo esempio. Il caso più famoso è quello di Cincinnato che, per rispondere alla chiamata dello stato, lasciò il suo campo di 4 jugeri sul colle Vaticano e tornò a lavorarlo una volta terminato il suo incarico politico, senza averlo ingrandito (cioè senza essersi arricchito). Ricordo anche che il Senato dovette ammettere fra le spese pubbliche il pagamento dei lavori dei campi del generale Attilio Regolo, che aveva dovuto prolungare la sua permanenza in Africa ma, senza le sue braccia, la famiglia rischiava di morire di fame.

Questi lodevoli esempi erano solo eccezioni. Infatti, nel tempo, si instaurarono comunque degli squilibri che si accentuarono sempre più, grazie anche a leggi sempre più permissive sulla proprietà.

Quando Roma iniziò le prime conquiste, i terreni dei vinti erano confiscati ed erano annessi all'ager publicus, il demanio. Una parte di esse era venduta ai cittadini liberi. I più ricchi si aggiudicavano non solo gli appezzamenti più grandi ma anche i terreni migliori. Una parte era comunque data a chi non poteva permettersi di pagare ma, in cambio, doveva rendere ogni anno una parte del raccolto. Poi gli appezzamenti saranno assegnati anche ai veterani degli eserciti.

Non è facile capire come si passò dall'agricoltura di pura sussistenza alla nascita di aziende agricole con finalità economiche. Si pone come pietra miliare in questo senso l'epoca di Catone il Censore (a metà circa del II sec.a.C.), grazie alla sua testimonia della trasformazione in atto. Le prime ville erano medio-piccole e purtroppo sappiamo che la loro crescita fu legata soprattutto al lavoro schiavistico dei prigionieri di guerra.

Ad ogni modo, iniziò un periodo di grande prosperità per il vino e il suo commercio, così come per l'agricoltura italiana in generale, che rimarrà floridissima più o meno fino alla fine della Repubblica ed il primo Impero. Da lì in poi iniziò però un progressivo declino, per molteplici ragioni. Ebbe grande importanza in questo senso la nascita ed espansione del latifondo, come temevano i Romani più antichi, che portò alla perdita dell'agricoltura specializzata ed alla dipendenza dalle provincie. Come si arrivò a questo punto? Non è semplice fare una sintesi ma provo a dare un'idea della trasformazione in agricoltura.

212Il latifondo finì per predominare ed espanersi per la scomparsa progressiva delle piccole proprietà. Anche nell'era più florida il piccolo-medio agricoltore non aveva sempre vita facile. Diversi autori ci testimoniano di come fossero ingenti i costi per avviare e gestire un'azienda agricola, soprattutto con l'impianto del vigneto, e di come fossero pesanti le tasse. Se aggiungiamo anche il rischio di annate scarse o andate proprio male, le difficoltà si moltiplicavano. I piccoli proprietari erano costretti molto spesso ad indebitarsi, con poche o nessuna tutela, con interessi spesso altissimi.

Progressivamente, sempre più  piccole proprietà sparirono, per i costi ingenti ed i prestiti usurai, che sono  denunciati già dall'epoca di Catone. Se gli agricoltori non riuscivano pagare monetariamente i debiti, dovevano andare a lavorare come servi nei campi e nelle vigne dei loro creditori, trascurando i propri. Questa forma di servaggio era chiamata nexus. Chi non ce la faceva neppure così, doveva cedere la proprietà, contribuendo così all'allargamento di quelle dei più ricchi. Chi non si era compromesso a tal punto da diventare schiavo, abbandonava le campagne e si accalcava in città, dipendendo dall'erario statale per mangiare.

Così denuncia Varrone: "... i padri di famiglia a poco a poco si sono introdotti dentro le mura della città, hanno abbandonato la falce e l'aratro, e preferiscono usare le mani per applaudire nel teatro e nel circo piuttosto che nella coltivazione dei campi e delle vigne, così paghiamo per sfamarci chi ci porti il grano dall'Africa e dalla Sardegna e facciamo le vendemmie nelle isole di Coo e di Chio".

Dalla tarda Repubblica in poi, questo disagio politico e sociale per la progressiva scomparsa delle piccole e medie proprietà è testimoniata da numerosi autori dell'epoca, con denunce della situazione o l'incitamento morale a tornare all'agricoltura. C'è chi compone lodi poetiche sulla vita agricola, chi trattati in cui esalta la sua valenza economica (soprattutto della viticoltura, come Plinio con la vigna di Palemone). L'intento è di spingere i Romani a tornare ad occuparsi di queste attività, sempre più in pericoloso declino.

In tarda età repubblicana e prima età imperiale, a lato delle piccole proprietà, nacquero latifondi sempre più grandi. Già Cicerone denunciava che, alla sua epoca, la maggior parte delle terre agricole erano di proprietà di soli 2.000 capifamiglia. Ci fu chi tentò, debolmente, di arginare questi fenomeni. Nerone lo fece in modo brutale, con un gesto più stizzoso che altro: fece giustiziare sei latifondisti che, da soli,  si spartivano quasi tutte le terre africane.

il saltus compare sempre più anche in affreschi e opere dell'epoca (dalla villa di Adriano)
Il paesaggio detto saltus nella villa di Adriano

Non è che le aziende agricole medie o piccole sparirono del tutto nel corso dell'Impero. Diverse rimasero a lungo, alcune anche fino alla fine dell'era Romana, soprattutto in territori marginali, come ho già raccontato per la nostra zona di  Bolgheri (vedete qui e qui).

I latifondi però arrivarono ad occupare buona parte della penisola. Erano così grandi che era sempre meno conveniente investire in produzioni specializzate, come la viticoltura. Molti di essi si basarono principalmente sull’allevamento, poco costoso e che richiedava poca manodopera. Si diffusero così paesaggi abbandonati ed informi, definiti saltus, che compaiono anche nei paesaggi pittorici dell’epoca.

In un primo tempo, il saltus si allargò a discapito del paesaggio naturale delle selve, distrutte con incendi, o andando ad usurpare le terre pubbliche. Nel corso dell'Impero si espanse a spese soprattutto del paesaggio agricolo e divenne sempre più perfettamente sovrapponibile alle grandi proprietà terrierie. Solo qua e là era interrotto da piccoli appezzamenti lavorati, ad uso dei guardiani e dei pastori o coltivato dalla nuova figura del colono (di cui parlo più avanti).

Palladio, nel IV secolo d.C., torna a denunciare quei ricchi che si costruiscono ville e giardini a dismisura, trascurando l’agricoltura o tramutando i campi fertili in pascoli. Si lamenta che vi si allevino animali utili solo a nutrire il lusso di pochi (come pavoni, piccioni, tordi, quaglie, ...), mentre sempre più gente affamata fugge disperata dai campi e s’accalca in città.

Quello che restava dell'agricoltura del Tardo Impero andò sempre più in decadenza anche per l'eccessiva pressione fiscale, il dispotismo militare e l’anarchia. Le invasioni barbariche fecero il resto.

I nostri colleghi di allora.

L'agricoltura delle origini, di sussistenza, vedeva protagonista il proprietario e la sua famiglia, come Cincinnato o Attilio Regolo descritti sopra. Col tempo nacque la villa, cioè l'azienda agricola con finalità di profitto. Catone è il primo a descriverla, nel De agri cultura (o De re rustica), nel 160 a.C. Anzi, scrisse la sua opera proprio con l'intento di fornire consigli pratici agli agricoltori (di un certo censo) per far crescere la loro attività, una sorta di manuale che propone un modello "manageriale" da seguire.

Secondo Catone, la vigna è la coltivazione più importante e la più redditizia, per cui deve occupare una parte importante dell'azienda. La dimensione ideale per lui è di cento jugeri (poco più di 25 ettari). Solo più avanti nasceranno i grandi latifondi. Non dobbiamo comunque paragonarla ad una vigna di oggi della stessa dimensione, perché la viticoltura romana, ricordo, era sempre promiscua. Alle viti era alternata la coltivazione del grano o altri cereali, come resterà comune in Italia fino al Novecento (vedete la foto).

campagna umbra 1958
Questa foto della campagna umbra del 1958 ci dà un'idea di com'era il paesaggio agricolo del periodo dell'antica Roma. Poco è cambiato. Si vede la classica coltivazione promiscua, con file di aceri a cui sono maritate le viti, alternate a strisce di cereali o altre coltivazioni. (da Bracali)

Non credo sia così interessante parlare dei ricchi proprietari che si recavano più o meno saltuariamente a controllare il lavoro nelle loro proprietà o che, più avanti nella storia, trascorrevano ore di piacevole otium in villae diventate (più o meno) principesche. Se ne legge ovunque. Voglio andare a conoscere i veri vignaioli.

Catone ci dà indizi su chi erano, raccontandoci che per la sua azienda ideale di 100 jugeri ci vogliono 16 persone al lavoro. A gestirla c'è il vilicus, il fattore, a cui spetta la direzione di tutti i lavori agricoli e l'amministrazione, coadiuvato dalla moglie, la vilica.

Sotto di essi ci sono 10 operarii (operai) generici, più quattro specializzati. Questi ultimi comprendono i “trattoristi” dell’epoca: i lavori erano fatti con gli animali. Ci voleva un bubulcus (il bifolco, guardiano e guidatore dei buoi), un subulcum (il sottobifolco, aiutava il bifolco e si occupava dei maiali) e un asinarius (chi si occupava degli asini). Per arare e trainare i carri infatti ci vogliono due buoi e tre asini, di cui due per i carri ed uno per la mola (delle olive), con tutti gli equipaggiamenti. Ci voleva poi un salictarius, detto vinchiaiuolo in epoche più recenti. Era colui che aveva cura del saliceto, il boschetto di salici, i cui rami erano di molteplice utilità: quelli più sottili erano usati per legare le viti e altre piante. Quelli un po’ più spessi servivano per realizzare cesti, stuoie ed altro.

bassorilievo-romanoErano liberi o schiavi? Sappiamo tutti che le ville romane si basavano soprattutto sul lavoro schiavistico, eppure Catone parla sempre di operarii, operai, mai servi o schiavi. Ciò non toglie che le ville crebbero e si espansero proprio grazie all'arrivo di manodopera gratuita, soprattutto a partire dalle guerre sanniche e puniche. Per molto tempo i prigionieri di guerra furono i principali lavoratori in agricoltura. Può consolarci pensare che gli schiavi potessero almeno riscattarsi come liberti e fare addirittura ascese sociali (come Palemone o Acilio Sthenelo). Era però difficile che fossero gli sfortunati lavoratori delle campagne. Era molto più facile per chi viveva a stretto contatto dei padroni, riuscendo magari a conquistarsi il loro affetto o il rispetto. Ad esempio, il giovane Palemone, accompagnando a scuola il figlioletto della sua padrona, era riuscito a dimostrare grandi doti intellettuali. Questa donna di buon cuore gli donò così la libertà e la possibilità di studiare. Non a caso, comunque, nelle grandi proprietà successive a Catone, comparve anche la figura dell'ergastularius, il guardiano degli schiavi e dei servi; li controllava e li rinchiudeva la sera perché non potessero fuggire.

Nelle grandi ville, a volte ricche fino allo sperpero, comunque aumentò in modo esponenziale il numero di addetti e la loro specializzazione. Ecco qualche esempio: vinitor (il vignaiolo, chi si occupava della vigna in modo specifico, in queste grandi proprietà), putator (l’esperto di potature), frondator (chi passava a sfrondare le viti o altre piante), fossor (lo zappatore, usato anche come sinonimo di sciocco), pastinator (l’operario che zappava la vigna), vindemiator (il vendemmiatore), arator (l’aratore generico), germiniseca (colui che negli orti e nelle vigne tagliava i piccoli germogli, faceva la spollonatura), strictor (il raccoglitore delle olive dai rami), legulejus (colui che ripassava a raccogliere le olive cadute per terra), saltuarius (il boscaiolo), topiarii (i giardinieri), mellarii (si occupavano delle api e della produzione del miele) e tanti altri ancora.

paleocristiana-mosaico-02Columella addirittura raccomanda che ciascuno, a seconda del lavoro, abbia certe caratteristiche fisiche. Ad esempio il bifolco deve avere la voce e il corpo grosso, chi ara deve essere alto di statura, il vignaiolo deve avere le braccia robuste, il pastore deve essere diligente e frugale, ecc. Fa però piacere scoprire che Columella sottolinei che gli schiavi debbano essere trattati con famigliarità e rispetto, anche nel loro ruolo professionale. Infatti scrive che devono essere consultati nelle scelte di lavoro. Purtroppo non era la norma.

Non dimentichiamo però anche gli uomini liberi, come accennato sopra, che dovevano prestarsi al lavoro servile (nexus) per pagare i debiti. C'erano anche lavoratori liberi e retribuiti, prevalenti in territori in cui si erano instaurati rapporti sociali diversi. Un esempio in questo senso era la nostra antica Etruria del nord, come ho già raccontato qui. Infine, gli appezzamenti di un latifondo potevano anche essere affittati ad agricoltori (coloni) liberi, che lo coltivavano con la loro famiglia e i loro schiavi.

Nel corso dell'Impero il sistema schiavistico entrò in crisi: non c'era più espansione e quindi venne a mancare l'alimentazione continua dei prigionieri di guerra. L'economia era oppressa da un sistema fiscale e burocratico sempre più asfissiante. Le campagne erano sempre più abbandonate. Per far fronte alla carenza di manodopera, dal III sec. d.C. nacque il cosidetto colonato, una sorta di anteprima della servitù della gleba medievale.

ef9d0e56bd942e20db4889c994825d9bIl termine colono (colonus) indicava da sempre l'agricoltore, ma in quel periodo iniziò ad assumere un significato particolare. Ufficialmente non era uno schiavo ma un affittuario, ma aveva un rapporto che era di esclusivo beneficio dei ricchi proprietari. Era vincolato all'appezzamento assegnatogli dal padrone del latifondo, quindi non poteva andarsene a suo piacimento. Doveva al padrone quasi tutta la produzione, salvo lo stretto necessario per vivere, oltre che doveva svolgere corveé di lavoro nei campi padronali. La beffa finale era che il colono doveva anche pagare le tasse.

Si era coloni per nascita, lo potevano diventare ex-schiavi. Lo diventavano anche uomini liberi, piccoli proprietari terrieri che preferivano (si fa per dire) rinunciare alla loro indipendenza perchè oppressi dai debiti e dal fisco. C'era anche chi ci arrivava per condanna, per reati vari come l'evasione fiscale o la bancarotta. Questa condizione poteva cessare solo con la scelta di entrare nell'esercito o nel clero o per estinzione temporale del reato. Nel periodo di Giustiniano era praticamente impossibile liberarsi: si poteva uscirne solo riuscendo ad acquistare il fondo o diventando vescovo (!). Molti provavano naturalmente la fuga, come gli schiavi, col rischio di essere puniti severamente dal padrone, anche con la morte. Chi ce la faceva a scappare non poteva che darsi al brigantaggio nei boschi o si nascondeva nelle folle delle città, oppure gli toccava mettersi sotto la protezione di un altro signore.

(... continua...)

[alert style="warning"]Unità di misura romane per le superfici agricole:

Le superfici agricole erano espresse sopratuttto con lo jugerum, circa 2553 m2, più o meno ¼ di ettaro (che, ricordo, è 10.000 m2). L'unità di base era l’actus quadratus, la metà dello jugero.

L'unità di misura lineare era il pes, il piede, che corrispondeva a 29,779 cm. Dieci piedi facevano 1 pertica. In molte zone del nord d'Italia la pertica e la pertica quadrata sono rimaste in uso fino ai nostri giorni in ambito agricolo, anche se con misure diverse da quelle romane. Variano anche fra i diversi territori.[/alert]

Bibliografia:

Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana, a cura di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.

Storia dell'agricoltura italiana nell'età antica. Italia Romana. A cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002.

Luigi Manzi, 1883,  “La viticoltura e l’enologia presso i Romani”.

Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, “Storia della vite e del vino in Italia”.

Emilio Sereni, 1961, “Storia del paesaggio agrario italiano”.

Paolo Braconi, “Vinea nostra. La via romana alla viticoltura”.

Paolo Braconi, “Catone e la viticoltura intensiva”.

Paolo Braconi, “In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in epoca Romana.

Paolo Braconi, “L’albero della vite: riflessioni su un matrimonio interrotto”.

Attilio Scienza, “Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana.

Attilio Scienza et al., Atti del Convegno “Origini della viticoltura”, 2010.

Cornelia Cogrossi, "Il vino nel «Corpus iuris» e nei glossatori". In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 499-531.

M. R. Caroselli, "Terra e produzione agraria in Italia nell'Evo Antico".

Jesper Carlsen, "Landuse in the Roman Empire", ed. L'Erma di Bretschneider, 1994.


Buona Pasqua

Cari amici, buona Pasqua a tutti!

Vi auguriamo il meglio, anche se in questo momento è veramente difficile trovare parole di speranza, con così tanti morti e persone sofferenti, l’economia in grave difficoltà, politici che ci riempiono di parole vuote, ...

Eppure, Albert Camus scriveva che la speranza (da sola) equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi.

In genere, come voi, mostriamo sempre la nostra faccia più allegra ed ottimista, ma il nostro lavoro è da sempre fatto di spine oltre che di rose.

Lavoriamo con la natura, qualcosa che può riempirci di soddisfazione e di gioia, ma ogni tanto ci pungola con colpi terribili: la siccità, la gelata, un’annata storta, … Poi dobbiamo lottare con una burocrazia asfissiante, l’importatore che di colpo ti molla, il trattore o l’imbottigliatrice che all’improvviso si rompe (e quelli che devi tirare fuori non sono pochi spiccioli), …

Per questo siamo abituati, come succede anche a voi, ad essere forti contro gli ostacoli della vita, a reinventarci, a lavorare tanto, come e più di prima. Questo virus è uno dei colpi peggiori, ma non ci fa paura: se non ci vincerà, ci renderà ancora più forti.

Quindi, vi auguriamo di avere forza.

Facciamoci forza, per noi e per i nostri cari, per i meno fortunati, per chi veramente non riesce a farcela da solo.
Andrà tutto bene solo se noi facciamo in modo che sia così.

… e non dimenticate di bere un ottimo vino, il rimedio migliore per lo spirito!

Annalisa e Michele Scienza

foto: Katrin Pfeifer


Rute, nuova annata 2017

Nuova annata del Bolgheri Rosso Rute, la 2017. Dovevo scrivere la scheda e ho pensato a cosa è Bolgheri per noi: semplicemente, la nostra casa. Ho cercato allora cosa Michele ed io (e i nostri figli) amiamo di più del nostro vivere qui e l'ho descritto così, in poche righe:

"Bolgheri è stato per secoli un territorio di fatica,
aspro e selvaggio.
Oggi è un giardino mediterraneo, dalla bellezza ancora un po’ selvatica.

Per noi, è la nostra casa,
che ha il profumo dei sentieri di collina nella macchia,
del salmastro dei tomboli*,
che ha il suono delle onde del mare,
degli schiamazzi dei ragazzi che si bagnano nel guado ...

Rute è questa Bolgheri a noi famigliare,
che cerchiamo nella terra e nei sassi delle nostre vigne,
nel nostro lavoro artigianale."

Che ne dite?
*I tomboli sono le dune di sabbia dietro la spiaggia. Qui sono ancora preservate, con una bellissima e delicata flora spostanea che le caratterizza.

la scheda


La viticoltura a Roma e la riscoperta del Genius Loci

I Romani erano grandi viticoltori. Al momento del loro apice agricolo, avevano raggiunto conoscenze empiriche di lavoro in vigna molto approfondite (pur con i dovuti limiti). Ci vorranno secoli, dopo, per recuperare queste competenze. Fra queste conoscenze, l’elemento veramente dirompente della viticoltura romana, che marcherà la cultura viti-vinicola italiana (ed europea in generale) fino ai nostri giorni, fu la comprensione del legame inscindibile fra vino e territorio.  

Sono conoscenze costruite in secoli di storia, dalla viticoltura primitiva delle origini fino a quello che è considerato l'apice,  la seconda parte del I secolo a.C. In questo periodo scriveva quello che è considerato il primo agronomo della storia, Columella. La sua opera “De Re Rustica” è così preciso e particolareggiato da essere considerato il primo vero e proprio trattario agrario in assoluto. Chi scriverà dopo di lui riprenderà essenzialmente i suoi contenuti e non per poco tempo: Columella rimarrà come riferimento principale per l’agricoltura almeno fino alla fine del XVIII secolo.

 

 

[one_third][info_box title="La scelta del suolo, del clima e delle varietà" image="" animate=""]Vediamo cosa dicevano a proposito i Rustici Latini, soprattutto Columella.

Columella fa numerose riflessioni circa la scelta del luogo della vigna, in relazione al suolo e al clima, e alla conseguente scelta delle varietà più adatte. Non tutte le sue considerazioni sono corrette, alla luce delle nostre conoscenze, anche se molte lo sono, seppure generiche. Quello che è rilevante è cogliere come allora si capisse l'importanza di queste relazioni.

Il terreno migliore non deve essere né troppo argilloso e neppure troppo sciolto (oggi diremmo di medio impasto), ma si avvicini di più a quest’ultimo. Ne sia troppo magro ma neppure troppo fertile, meglio però verso il secondo.  Non è il migliore il terreno scosceso neppure l’estrema pianura, meglio comunque un piano più o meno inclinato (per far drenare l’acqua). Si deve comunque investigare la tipologia della terra anche sotterranea e non guardare solo alla superficie. La cosa migliore comunque è fare delle prove con i diversi tipi di terreno, per capirne le diverse risposte produttive.

In generale, comunque, se il terreno è adatto a dare vino gradevole e prezioso, meglio piantare una vite che non sia troppo produttiva ma neppure troppo poco. Se invece il terreno non è tanto buono, meglio mettere una vite molto fertile per averne comunque una buona rendita nella quantità.

Nel piano si ha vino più in abbondanza, nelle colline quello più gradevole. Le vigne inclinate verso il nord sono più fertili, ma quelle verso il sud danno il vino dal gusto migliore. Nei luoghi freddi è meglio avere l’esposizione a sud, in quelli tiepidi è meglio l’est, purché in entrambi i casi non siano esposti a venti provenienti da quelle direzioni.

Conosciamo i nomi di molte varietà romane, infatti sono state elencate in diversi testi antichi. È veramente difficile riuscire a collegarle a quelle moderne. I nomi erano mutevoli già allora. Quelle che sono nominate da Catone, non lo sono più da Columella e Plinio, che scrivono 200 anni dopo. Anche questi due autori, che sono contemporanei, presentano a volte delle discordanze. Ad ogni modo, non faccio l’elenco delle varietà, anche perché si possono trovare ovunque. Mi sembra più interessante la parte in cui Columella spiega la scelta delle viti in relazione ai territori.

Egli scrive che, quando si deve fare una vigna, ci si informi di persona sulle viti migliori da piantare e non si affidi ad altri l’acquisto delle barbatelle (viviradicem).   Meglio ancora che si faccia il vivaio (vitiarium) interno e questo non deve essere posto in un suolo di qualità peggiore di quello della vigna.

L’agricoltore deve capire che le varietà di viti che resistono alla nebbia sono adatte alla pianura, invece sono più adatte al colle quelle che tollerano bene la siccità ed i venti. Così nel terreno pingue e fertile si pianterà la vite magra e poco feconda, nel terreno magro la vite più vigorosa, nel terreno denso la vite forte e che produce molti sarmenti. Nel terreno umido non sono adatte le viti che producono acini grossi e molli, ma vengono meglio quelle con acino piccolo e duro. Nel terreno ben drenato possono crescere invece varietà diverse.

Non bisogna però fare solo attenzione al terreno ma anche al clima. Dove c’è più freddo e nebbia, si mettono le viti più precoci, i cui frutti maturano prima oppure quelle che hanno acino robusto e duro. Dove c’è tanto vento e tempesta, si metteranno anche qui viti robuste e con acini duri. Dove c’è molto caldo ci possono stare le più tenere e che hanno i grappoli più compatti. Nei luoghi più placidi e sereni nel clima si può mettere ogni sorta d’uva, ma stanno meglio quelle più precoci.

Il vignaiolo avveduto oltre alle viti migliori, dovrebbe mette sempre diverse varietà, perché ciascuna può rispondere in modo diverso alle avversità di ogni annata.

In questi capitoli si intuisce anche che la prassi più comune di allora era quella di vigne con più varietà mescolate insieme, alla rinfusa, come rimasto in Italia per i secoli a venire. Secondo Columella però è meglio disporle in modo separato ed elenca i vantaggi di questa scelta. Non tutte fioriscono e maturano allo stesso momento. Se si raccolgono insieme le uve con diversa maturità si creano problemi: se si aspettano le uve più tardive, le prime sono mangiate dagli uccelli e danneggiate dai venti e dalle piogge. La separazione permette anche al vignaiolo di sapere come potare, difficile nelle vigne con le varietà mescolate, visto che in quel momento non ci sono neppure le foglie a far capire la tipologia.  Allo stesso tempo, ogni specie potrà essere piantata nella parte di vigna più adatta alle sue caratteristiche, per suolo o con la giusta esposizione.
Tuttavia l’autore ammette che è difficile attuare questo principio, anche perché la maggior parte dei vignaioli non sa distinguere le diverse varietà. Sembra qui di rileggere i testi degli agronomi dell'Ottocento, che cercavano di traghettare la viticoltura di allora verso forme più razionali. Ad ogni modo, Columella scrive che la miglior cosa, se non è possibile altrimenti, è piantare insieme quelle varietà che hanno gusto simile e maturità simile.

La vigna con più varietà è chiamata da Plinio vitis conseminea, da Columella conseminales vinea.

[/info_box][/one_third]

santa costanza roma crisitanesimo-romanoNel suo e in altri testi latini si sottolinea ed esamina come ogni suolo e clima richiedano la scelta delle varietà di uve più opportune, scelte diverse di approccio di lavoro e la produzione di tipologie di vino diverse. Questo, legato al fatto che i Romani identificavano il vino essenzialmente col luogo di provenienza e l’annata di produzione, ci fa capire che furono i primi a concepire e a lasciarci in eredità quel concetto fondamentale che noi oggi chiamiamo comunemente “terroir”.

I Romani non avevano esplicitato questo aspetto culturale del vino con un termine specifico, così come non sarà fatto nelle epoche successive, in Italia e nel resto d’Europa. Eppure era un sentire comune diffuso e vivo.

È stato fatto in epoca più recente, all'interno di quel lungo processo di trasformazione del settore viti-vinicolo del XX secolo che è alla base della nascita del vino moderno. In particolare, se ne discusse molto nel secondo dopoguerra.

In questo periodo molti studiosi ed esperti iniziarono a riflettere profondamente sul concetto di territorio viticolo, come elemento basilare della nostra cultura, capace di marcare in modo unico le caratteristiche di un vino.

La sua definizione non è semplice, in quanto è composto da molti fattori. Il primo, quello più scontato, è sicuramente quello territoriale in senso stretto, legato alle caratteristiche geografiche e quindi pedo-climatiche, cioè di suolo e di clima, con le tutte le sfumature di variabilità che ci possono essere nelle micro-situazioni di singole vigne o addirittura di particelle (l'esposizione, la presenza di barriere ai venti, zone di maggiori umidità, ecc.). In relazione a queste differenze pedo-climatiche, vi sono poi le diverse risposte che ogni varietà di uva può dare in un determinato territorio o micro-territorio. Inoltre bisogna considerare le variazioni annuali di questi elementi, legate all'annata. Non intervengono però solo però gli elementi "naturali". Altri aspetti imprescindibili dipendono dall'altro grande protagonista della nascita del vino, l'uomo: le tradizioni locali, le loro trasformazioni nel tempo, la modellazione del paesaggio, la storia, la cultura viticola, le scelte produttive, modi diversi di concepire la propria relazione con l'ambiente ed il proprio lavoro, ...

Era però necessario trovare un nome per esprimere questo concetto così denso. La parola "territorio" è limitante, troppo di uso comune e quindi possibile causa di fraintendimento. L'errore più scontato, che ancora oggi molti fanno, è quello di ridurlo alle sole caratteristiche pedo-climatiche. Si iniziò così a pensare d'introdurre termini diversi, in grado di comprendere questa complessità. Nacque così l'uso di Genius Loci e di terroir.

Sono diversi? No, esprimono più o meno lo stesso concetto, ma nascono in due ambiti culturali diversi.

Il Genius Loci

La locuzione Genius Loci, di origine romana, fu ripresa in epoca moderna prima di tutto in architettura, inserita nella storica riflessione sul concetto di "luogo". Da qui fu traslata al concetto di territorio viticolo.

435px-Pompeii_-_Casa_del_Centenario_-_MANIl Genio, Genius (da gignere= creare, generare), nell'antica Roma era uno spirito tutelare, un nume benevolo che vegliava su ogni persona, a metà fra gli uomini e gli dei. Più o meno lo stesso concetto era presente nella cultura greca, dove era chiamato daimon. Non era solo del singolo individuo, ma anche di collettività: c'erano anche Genii della famiglia, della Province, dello Stato, di associazioni varie, ecc. Il concetto era anche esteso ai luoghi, col nome di Genius Loci, il genio del luogo. Si trattava di un custode benevolo che veglia su di esso e sulle persone che lo abitavano o anche una sorta di sua personificazione.

Secondo Servio nullus locus sine Genio est” (nessun luogo è senza un Genio). genius_loci_18834_lg

Virgilio, nell’Eneide, lo descrive come un viscido e grande serpente che esce strisciando dalle viscere della terra (libro V, 84-75). Infatti era spesso raffigurato come un serpente, un animale considerato simbolo di fortuna. La sua immagine sui muri di un edificio era l'espressione della volontà di mettersi sotto la tutela del Genius Loci. Spesso è raffigurato come un serpente che si avvolge intorno all'altare, dove sale per divorare le offerte che gli sono state fatte.

Per avere la sua benevolenza bisognava rispettare il luogo, invocarne il protettore e fargli offerte di profumi, fiori, frutti, focacce e vino. Il Genio allora sarebbe stato benevolo, si sarebbe palesato riempiendo il luogo di sacralità. Se invece la persona fosse stata ostile al luogo, lo avesse devastato, esaurito le sue risorse, allora si sarebbe inimicata il Genio. Egli allora si sarebbe negato, avrebbe svuotando il luogo della sua presenza, causando quindi sventura.

genii

A volte è rappresentato come una figura umana, circondata da simboli di piante ed animali propri del luogo. Un'immagine molto più comune dei Genii era invece quella della figura alata, da cui sono derivate le raffigurazioni degli angeli cristiani.

Queste credenze saranno comunque assimilate nel cristianesimo nelle figure degli angeli custodi e dei santi patroni.

 

Ad introdurlo per primi nel dibattito moderno sul significato di "luogo" furono gli architetti Aldo Rossi, alla fine degli anni ’60 e, soprattutto, il norvegese Christian Norberg-Schulz, un decennio dopo. Il latino Genius Loci iniziò così ad essere usato per definire la molteplicità complessa di quegli elementi che costituiscono l'identità più profonda di un Luogo. Comprende l’insieme delle sue caratteristiche intrinseche, fatte da elementi geografici e strutturali, naturali e artificiali, ma anche da elementi immateriali e mutevoli, come le stratificazioni storiche, culturali, il modo stesso in cui viene percepito dall’osservatore, il suo “carattere”, i colori, le variazioni della luce, ecc.91Fq9LkfEGL

Poco tempo dopo, il prof. Attilio Scienza, prendedono ispirazione dal dibattito architettonico, propose l'introduzione dell’uso della locuzione Genius Loci nell’ambito viti-vinicolo, per richiamare in modo potente quel legame fra vino e territorio ereditato dai Romani, scandagliato ed approfondito dal dibattito moderno intorno al territorio viticolo descritto sopra.

 

La nascita del "terroir"

Più o meno nello stesso periodo, anche in Francia stava maturando questa riflessione, partita dal medesimo retroterra culturale: tutti i territori viticoli europei sono figli ed eredi della viticoltura Romana.Winged_genius_Boscoreale_Louvre_P23

I francesi esplicitarono questo concetto col termine di terroir, che si è iniziato ad usare con questo significato più o meno dalla metà del '900. Fino ad allora, questa parola era un sinomimo di suolo, di terreno, di territorio, non di uso comune nella Francia moderna. Era un arcaismo impiegato per lo più nell'ambito agricolo. L'aspetto curioso è che, nel XVIII-XIX secolo, era usato in senso spregiativo. Il « goût de terroir » indicava un sapore negativo del vino. «On dit que le vin a un goût de terroir, quand il a quelque qualité désagréable qui lui vient par la nature de la terre où la Vigne est plantée » (Louis Liger, Dictionnaire pratique du bon ménager de campagne et de ville. Ribou, Paris, 2 t., 449 & 407 p.).  "Si dice che il vino che ha il gusto di territorio, quando ha qualche qualità sgradevole che gli viene dal tipo di terra dove la vite è stata piantata".

 

 

Soprattutto negli anni '70-'80, il prof. Attilio Scienza si impegnò sulla diffusione e riflessione intorno al territorio viticolo come Genius Loci, nell'ottica di rimarcarne l'importanza produttiva e culturale, ma anche di sottolineare la nostra primogenitura, in quanto italiani, di un'eredità culturale nata in Italia, usando un nome latino.

Hatzikyriakos-Ghika Nikos, Genii Loci, 1970
Hatzikyriakos-Ghika Nikos, Genii Loci, 1970

Purtroppo il mondo del vino italiano non colse allora la centralità di questo aspetto, oltre che la grande valorizzazione del vino italiano nel mondo che ne sarebbe derivata. Quando ha iniziato a capire l'importanza di raccontare l'atavica relazione fra vino e territorio, ha accettato supinamente il terroir, alla francese, che nel frattempo si era ormai imposto. Infatti i nostri vicini, a differenza nostra, ne avevano capito l'importanza ormai da decenni, lo avevano coltivato e diffuso. Infine, è stato amplificato e consolidato in modo universale dagli scrittori di settore anglosassoni. Oggi spesso i francesi sostengono anche di averlo inventato (non solo come termine)! Sic transit gloria mundi.

Non posso nascondere di essere di parte. La mia anima latina mi fa amare di più il Genius Loci, anche perchè mi sembra che esplori profondità maggiori! Niente mi appare così affascinante come l'immagine di un Genio che ci dispensa favori o sventura per quanto noi amiamo e rispettiamo la nostra terra!

Comunque, al di là di primogeniture e parole, resta il fatto che niente come il Genius Loci (o il terroir) sia in grado di rappresentare l'anima più vera del vino artigianale, da oltre duemila anni. C'è chi dice che sia qualcosa di impalbabile, difficile da spiegare nel dettaglio, da capire in modo razionale mentre si assaggia un vino. D'altra parte è la sua natura: in parte si spiega con la scienza, ma ha anche qualcosa di sfuggevole,  complesso, più facile da capire col lato intuitivo della nostra mente. Quando fai questo lavoro però ti accorgi che niente comunque è più vivo e vero di esso.

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Continua.

Bibliografia

Columella, “De re rustica” , 65 d.C.

Giangirolamo Pagani, 1794, Rustici Latini Volgarizzati, Lucio Giunio Moderato Columella, ed. Vittorio Curti Venezia.

Attilio Scienza et al., 2010, Atti del Convegno “Origini della viticoltura”.

Luigi Manzi, 1883,  “La viticoltura e l’enologia presso i Romani”.

Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, “Storia della vite e del vino in Italia”.

Emilio Sereni, 1961, “Storia del paesaggio agrario italiano”,

Marcella Peticca, "Genius Loci: perdita e riscoperta del luogo", 2015, Università di Bologna.

P. Prévost, P. Morlon, J. Salette,  "Le Mots de l'Agronomie", 2017,  https://mots-agronomie.inra.fr/index.php/Terroir

https://www.romanoimpero.com

Le immagini senza didascalia sono mosaici ed affreschi di epoca romana.

 


Restiamo a casa

Come purtroppo sapete, siamo in emergenza Corona virus. Quindi ci adeguiamo alle regole e stiamo chiusi. Se volete i nostri vini, ve li spediamo a casa. Scritemi a info@guadoalmelo.it per ogni informazione o chiamate tel. 0565 763238.

Insieme ce la faremo!


L'equilibrio della vigna inizia sempre con una buona potatura

In questi giorni stiamo facendo in vigna la potatura secca (o invernale), che è il più importante fra tutti i lavori utili ad indirizzare le viti ad un equilibrio armonioso. Con questo post cercherò di farvi capire a grandi linee come e perché facciamo questo lavoro.

Prima di tutto vorrei sottolineare che niente è improvvisato: ci basiamo su un sapere che nasce da millenni di cultura contadina, approfondito ed ampliato poi dalle conoscenze sulla fisiologia della vite e le sue relazioni con l’ambiente che gli sta intorno. Per coltivare al meglio una pianta, è necessario conoscerla. Solo così è possibile rispettare i suoi equilibri ed intervenire in modo rispettoso ma utile.

È importante non fare errori nella potatura, altrimenti non riusciremo a produrre grandi vini di territorio. Sbagliare, o fare una cattiva potatura per trascuratezza o scarsa competenza, significa limitare l’espressione di tutta la potenzialità della propria vigna e/o danneggiarla a tal punto da accorciarle la vita.

[one_third][info_box title="Cosa succede se non si pota la vite?" image="" animate=""]009Se non si pota, come succede alla vite selvatica in natura o come si faceva nelle forme di viticoltura primitiva, la pianta tende a crescere molto e a produrre tanti grappoli.  Sono piccoli, poco dolci e poco equilibrati. È un’uva che va bene per essere mangiata dagli animali selvatici o per fare un vino rudimentale.

Gli antichi viticoltori iniziarono però a capire con l’esperienza che, potando, riuscivano a produrre un'uva migliore, più dolce, più buona, che produceva un vino molto più interessante. Da allora in poi questa pratica non è stata più abbandonata ma affinata al punto da essere diventata quasi un'arte.

La vite non potata tende anche ad avere una notevole alternanza produttiva. Significa che un anno si ha una produzione abbondante, l'anno dopo invece ci sarà pochissima uva o praticamente niente, e così via (al di là delle normali fluttuazioni delle annate legate all'andamento stagionale).[/info_box][/one_third] In pratica, quando la vite è in riposo, tagliamo i tralci dell’anno passato, lasciando un certo numero di gemme. Queste sono da valutare attentamente, perchè determinano la produzione che avrà la vite l’annata seguente. Numero e distribuzione delle gemme definiscono anche lo spazio di vita della pianta, cioè quella che è chiamata forma di allevamento.  È importante perchè da essa dipende l’equilibrio fra tutte le parti della vite (tronco, radici e chioma), in relazione all’ambiente in cui vive.

Il taglio va valutato pianta per pianta, vigna per vigna. Può essere fatto solo a mano, da persone esperte. Nessuna scelta è casuale nella buona gestione del vignaiolo: se avrete la pazienza di andare fino in fondo a questo post lo capirete.

Non è comunque l’unico lavoro che agisce sull’equilibrio complessivo, per cui deve essere fatto con una visione d’insieme, inserito in un ciclo iniziato con la nascita stessa della vigna, come è evoluta nel tempo e pensando già ai lavori successivi. In vigna niente è separato dal resto.

Quando si pota:

La potatura si fa quando la vite è nella fase di riposo invernale.

Bisogna considerare che il tempo della potatura condiziona quello del germogliamento primaverile. Prima si pota e prima la vite germoglierà (e viceversa). In genere, noi vignaioli vogliamo evitare che il germogliamento sia troppo precoce, perchè l'inizio della primavera è quello più a rischio di maltempo. Ci potrebbero essere gelate o grandinate, che potrebbero danneggiare i germogli. Per questo, in genere, si cerca di spostare la potatura il più avanti possibile. Dipende comunque molto dal proprio clima: il rischio è massimo nel nord Italia, minimo al sud, con tutte le variabili possibili. Da noi, è legato essenzialmente a possibili gelate causate dai venti di grecale o tramontana.

Bisogna anche tener conto, soprattutto per chi sta nei climi più freddi, che alcune varietà sopportano meno bene i geli invernali se sono state già potate. In questo caso sarebbe meglio aspettare di aver superato il periodo più gelido.

Infine, bisogna fare i conti con le proprie forze e la dimensione delle proprie vigne, per calcolare i tempi esatti, perché il lavoro deve essere terminato, in ogni caso, prima del “pianto della vite”. Si tratta della fuoriuscita di goccioline dai punti di taglio del legno: è il segnale della ripartenza del circolo della linfa nella pianta, il primo segno del prossimo sviluppo dei germogli.

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Gli strumenti del vignaiolo.

Fino a non molto tempo fa i contadini usavano strumenti da taglio diversi per ogni regione. A nord si usava soprattutto la roncola, nel centro e nel sud, come da noi, il pennato (nel disegno), con diverse forme a seconda delle zone. Questi attrezzi rendevano il lavoro difficile: bisogna fare attenzione a non ferirsi, a non ferire troppo la pianta (per evitare l’ingresso di malattie e parassiti) e ci voleva una certa forza. Nell’Ottocento si è cominiciato ad usare le forbici a molla e questo ha reso il lavoro un po’ più semplice. Oggi si usano ancora queste, a volte elettriche o pneumatiche, che riducono la fatica e l’usura delle mani. La sega si usava e si usa solo per tagli di rami particolarmente grossi o parti di tronco.

forbici a molla

Per questioni di sostenibilità, oggi molto spesso si fa anche la pre-potatura (come facciamo anche noi). È un taglio dei tralci molto grossolano, fatto con un attrezzo apposito portato dal trattore. Poi i potatori lavorano di fino, col taglio di potatura vero e proprio. La pre-potatura consente di eliminare la perdita di tempo e la fatica di districare i lunghi tralci, avvolti intorno ai fili e fra di loro. La velocità è importante perchè, come scritto, spesso la finestra temporale di lavoro non è molto larga.

Cosa ce ne facciamo dei tralci?

Come da tradizione, noi spezzettiamo i tralci tagliati nel vigneto e li usiamo per fare compost, utile a recuperare sostanza organica nella vigna. C'è anche chi li brucia, ma è poco ecologico ed è anche uno spreco. Il compost vegetale, che facciamo anche con tutti gli altri resti vegetali (raspi, erba, ecc.), contribuisce ad arricchire il suolo soprattutto di azoto, calcio e potassio. L’alto indice di biodiversità favorisce la mineralizzazione della sostanza organica e la corretta distribuzione di questi nutrienti.

 

Scendiamo nel dettaglio:
Un equilibrio molto delicato e complicato.

getty_153081592_970647970450075_799735-Figure2-1-1La vite indirizza la sua energia a diverse finalità: la crescita di tutte le sue parti (legnose e verdi), la formazione e sviluppo del grappolo, il deposito degli zuccheri e altri composti organici negli acini, l’accumulo di sostanze di riserva. Tutte queste funzioni sono fondamentali per un ottimale equilibrio della vite (e della vigna nel complesso) perché cresca bene, dia buona uva e abbia una lunga vita.

La potatura (con altri lavori successivi) agisce sulla regolazione del vigore della vite, indirizzando la sua energia prima di tutto alla produzione di uva equilibrata ma preservando sempre un sviluppo armonioso della pianta.

Questi lavori sono condizionati pesantemente dal territorio (clima e suolo), della varietà, del portinnesto, ecc., tutti elementi che bisogna conoscere bene per fare le scelte ottimali.  A seconda delle diverse condizioni, a volte può essere necessario stimolare il vigore della pianta, a volte è meglio limitarlo.

Una vite troppo vigorosa tende a crescere tanto in tutte le sue parti, producendo tanta uva ma scadente. Anche una vite troppo debole non produrrà il miglior vino che potrebbe esprimere. Manca di energia e non riesce ad accumulare nel grappolo tutti i composti organici necessari. Inoltre non “starebbe bene” in generale: non riuscirebbe a compiere il rinnovo vegetativo, a depositare le sostanze di riserva negli organi perenni. Questo comprometterebbe l'equilibrio della pianta, compreso il lavoro ottimale delle radici, con ripercussioni importanti sulla vita presente e futura della vite.

In entrambi casi si avrebbe uva di scarsa qualità, per ragioni opposte, che matura male. Non si tratta solo di un accumulo sbilanciato degli zuccheri (troppi o troppo pochi). Sarà anche un’uva che produrrà un vino con un’acidità non equilibrata, che potrebbe mantenere caratteri erbacei, che non riuscirebbe a sviluppare complessità aromatica, ecc.

[info_box title="Cicli vitali e gemme" image="" animate=""]Il ciclo della vite è circolare: dorme in inverno, si sveglia in primavera, germoglia, cresce, fruttifica e torna a dormire. Non è però un ciclo chiuso: ogni anno è strettamente connesso al precedente. Le gemme che germoglieranno la prossima primavera si sono formate l’anno prima, così come le riserve della pianta. Queste gemme, che restano dormienti fino alla primavera successiva, sono detteibernanti”. Sono quelle che decidiamo di tenere o meno con la potatura.

La gemma ibernante si sveglia a primavera, germoglia e forma i nuovi tralci. Sugli internodi dei tralci nascono le foglie, i grappoli, i viticci e nuove gemme. Si formano sia quelle ibernanti (che “serviranno” l’anno dopo) che quelle dette “pronte” o “laterali”. Queste ultime sono attive nella stessa annata in cui nascono: svilupperanno i rami laterali nel corso della primavera e dell’estate. Per ora però non ci interessano.

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Se affettiamo una gemma ibernante nel suo anno di nascita e la guardiamo al microscopio, vediamo che all’interno c'è l'abbozzo del futuro tralcio, sul quale compaiono già gli abbozzi dei futuri grappolini. Il loro numero indica la  fertilità della gemma.

Capite quindi perché l'andamento più o meno buono dell'anno precedente condiziona anche la produzione di quello successivo? La fertilità dipende da tanti fattori, come la varietà, il vigore della pianta o del singolo tralcio (cresce con la crescita del vigore ma i due estremi invece, troppo o troppo basso, riducono entrambi la fertilità), ecc.

Da questa osservazione al microscopio, possiamo anche vedere che nella gemma non c’è solo un abbozzo di futuro tralcio. Al centro ce n’è uno, il più grande, chiamato “asse principale”. Vicino ce ne sono altri due (o uno) più piccoli. Sono chiamati  gemme secondarie o di controcchio. Sono come delle “riserve”: se l’asse principale muore per qualche ragione, si sviluppano le gemme di controcchio, che però in genere non sono fertili.

Non proprio tutte le gemme ibernanti lasciate con la potatura si svilupperanno. Alcune muoiono, altre ancora possono rimanere latenti, come riserva della pianta in caso di necessità. Vengono inglobate nel legno in crescita e possono svilupparsi anche dopo parecchi anni. Sono risvegliate da eventi particolari, difficili per la vita della pianta (colpi, gelate, potature drastiche, ecc.) che stimolano queste riserve segrete di sopravvivenza. Quando si svegliano, formano dei rami bassi, sterili, detti succhioni. In genere i vignaioli li eliminano con la potatura verde. A volte però tornano utili, perché questi tralci bassi si possono impiegare per riformare le parti strutturali di una pianta che sono state danneggiate da traumi o parassiti.[/info_box]

La carica delle gemme.

Un elemento chiave della potatura, che cambia il flusso del vigore della pianta, è la carica delle gemme da lasciare, cioè il numero di gemme per ceppo (per singola vite).

Questa scelta dipende da tanti fattori. Molto in generale, un numero troppo alto di gemme causerebbe un eccesso di uva prodotta, troppo basso indurrebbe una crescita troppo vigorosa delle parti verdi, sottraendo energia alla maturazione dei grappoli. Dipende però molto dalla propria situazione particolare: dalla varietà, dal portinnesto, dal proprio clima, suolo, densità delle viti, di come sono andate le annate precedenti, ecc.

Il sistema migliore per capire la carica ottimale è solo l’esperienza e la conoscenza. Oltre che conoscere le basi, è necessario vivere la propria vigna, fare piccole prove ed osservazioni accurate, portate avanti negli anni, che ci fanno comprendere se stiamo lavorando bene oppure no.

Questo equilibrio deve anche essere il più possibile continuo. Cambi troppo drastici, anche se di correzione, possono essere a volte più dannosi che utili. Infatti, alterano troppo bruscamente un equilibrio ormai impostato, che riguarda tutta la pianta, non solo la chioma (tralci e foglie). Per questo è importante valutare certi cambiamenti in modo integrato, considerando tutti i lavori dell'anno in vigna.

Potatura corta o lunga? 

Un altro elemento chiave della potatura è se viene fatta lungo o corta. Questo dipende dal fatto che le gemme non hanno sempre la stessa fertilità lungo il tralcio. Lo si sapeva fin dai tempi di Columella. Dipende molto dal clima ma anche dalle varietà.

Perché dal clima?

POTNei climi più freddi, le gemme che stanno sui primi internodi (dette prossimali) “vengono un po’ male”, non formano gli abbozzi dei grappoli (in termini scientifici, si dice che non differenziano bene). Saranno quindi poco o per nulla fertili. Questo succede perché sono le prime a svilupparsi, all'inizio della primavera. In questi climi, questo è un momento poco favorevole, sia per le condizioni ambientali (ancora difficili), sia per il fatto che la pianta non è ancora ben nutrita. Lo stesso succede nella tarda estate, per le gemme degli ultimi internodi. Le più fruttifere sono quelle che nascono nel momento migliore di vita della pianta e che si trovano nella parte intermedia del tralcio (dette anche distali, cioè distanti dall'inizio del tralcio).

Nei territori più caldi, come nel nostro caso, questo di solito non succede, perché il clima è buono fin da subito, per cui sono fertili anche le gemme dei primi internodi. In questo caso è sempre meglio potare corto. Se si pota lungo, si lascerebbero troppe gemme fertili e si avrebbe troppa produzione.

Alcune varietà però si comportano in maniera diversa, indipendentemente dal clima. Quindi, possono essere fertili sulle prime gemme anche in climi freddi. Viceversa, possono produrre meglio sulle gemme distali anche in climi caldi.

Dove è possibile, comunque, di solito si preferisce sempre la potatura corta, che in genere dà un migliore equilibrio fra foglie e grappoli, con una maturazione migliore. Con questa potatura, tagliando il tralcio, rimane un moncone corto detto sperone (in passato anche cornetto o custode).

La potatura lunga o media si fa invece più frequentemente nel nord, nei climi più freschi, oppure è necessaria per alcune varietà. Col taglio, rimane un pezzo di tralcio più lungo, con più internodi, dalle cui gemme nasceranno in primavera i nuovi tralci fruttiferi.

Ci sono anche sistemi di potatura mista, con alcuni tralci tagliati corti ed altri lunghi. Sono necessarie per certe forme di allevamento, per la necessità di avere sia i tralci fruttiferi che per rinnovare le parti legnose.

Continuo a scrivere “in genere” perché questi aspetti sono molto variabili e solo l’esperienza e la conoscenza della propria situazione portano alla scelta migliore.

 

Potatura d’allevamento.

26allevamentoLa potatura di produzione, di cui abbiamo parlato finora, dipende molto anche dalla forma di allevamento della vite.

Nei primi anni di vita di una vigna, la potatura stessa si dice di allevamento. Non ha finalità produttive ma serve a far crescere bene la piccola vite e a portarla a prendere la forma di allevamento utile per quel territorio.

Sulle forme di allevamento ci tornerò con più dettagli, ora vediamole solo in modo molto generale per quanto si aggancia alla potatura e alle scelte principali.

Fra le tante forme di allevamento (e in Italia ne abbiamo veramente tante!), una differenza sostanziale è l’altezza del tronco della vite. Questo elemento cambia notevolmente gli equilibri della pianta.  All’interno del tronco ci sono dei vasi che portano in giro per la pianta quanto viene assorbito dalle radici (acqua e sali minerali) e, viceversa, quanto prodotto dalle foglie (le sostanze organiche e l’energia). Più il tronco è lungo, più si perde energia solo per questi trasferimenti, sottraendola al resto. Ci sono però anche esigenze diverse. che dipendono da tanti fattori, che possono rendere più o meno utile avere il tronco più o meno alto. Per esempio, in ambienti dove la vigoria non è un problema ma ci sono rischi di umidità e gelate, può essere più utile avere il tronco alto, per allontanare i grappoli dal suolo.

IMG_4889La forma d’allevamento e la potatura condizionano anche la disposizione della chioma. Se ci fate caso, ci sono vigne con i rami in verticale, in altre sono più o meno inclinati, se non addirittura ricadenti. Anche questo orientamento non è casuale. L’attività di vegetazione, il vigore di un tralcio, è infatti favorito dalla posizione verticale. Questa viene in genere preferita dove ci sono condizioni ambientali limitanti per la vite. Più il ramo è piegato rispetto alla verticale, più perde in vigoria, per cui si trova spesso nei territori dove si vuole contrastare un vigore troppo elevato. È un fenomeno che dipende anch'esso dai complessi trasporti interni della pianta.

Ci sono poi sistemi di allevamento dove i tralci sono più o meno affastellati, disposti a fare cerchi, pergolati, ecc. In generale, i tralci troppo uniti e sovrapposti favoriscono il ristagno d’umidità, le malattie, limitano l'assorbimento della luce del sole da parte delle foglie, ecc. Tutte queste scelte dipendono molto dalla situazione particolare della vigna. Ad esempio, nei climi molto siccitosi l’affastellamento limita la perdita d’acqua, riducendo la traspirazione. Dove c’è invece poco sole, è invece meglio disporre rami e foglie in modo che prendano al massimo l’energia solare, senza troppe sovrapposizioni che favoriscono anche l’umidità e quindi malattie e marciumi, più frequenti nei climi umidi, ... Le variabili sono molte.

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Le nostre forme di allevamento e di potatura.
PIEGATURA E LEGATURA

In un clima come il nostro, caldo ed arido d’estate, un po’ più piovoso in inverno e in primavera, suolo magro e ben drenato (alluvionale), le forme migliori sono quelle basse, sottoposte a potatura corta, a volte medio-lunga (a seconda delle varietà), con chioma verticale. Per questo abbiamo il Guyot e il cordone speronato.

Guyot: è un sistema tradizionale antichissimo italiano. Eppure, è stato erroneamente attribuito a questo agronomo francese, Jules Guyot, che lo ha descritto e ha contribuito a diffonderlo nel suo paese nel XIX secolo. È una forma poco produttiva e di alta qualità. Si trova in molte parti d’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. È un sistema di potatura misto. Per noi è perfetto per quelle varietà che sono più fertili nelle gemme distali. È una forma poco espansa, adatta a terreni poco fertili e siccitosi, dove la vite ha in genere uno sviluppo contenuto. Quando si pota si tengono due capi: un tralcio potato lungo sarà il capo a frutto, l’altro si pota a sperone, che servirà per il rinnovo del legno dell’anno successivo.

CORDONE SPERONATOCordone speronato: anch'esso tradizionale, deriva dal Guyot. In questo caso però c’è solo la potatura corta. È adatto a terreni di bassa o media fertilità, anche asciutti, per quelle varietà che hanno buona fertilità sulle gemme prossimali (le prime). Si trova molto in Toscana e altre regioni del centro. Durante i primi anni di allevamento, il tralcio migliore viene messo in orizzontale e diventa un elemento strutturale della pianta. Le gemme della parte di sotto sono accecate (eliminate). In primavera, dalle gemme superiori si formeranno i tralci fruttiferi. L’anno seguente ogni tralcio sarà tagliato a sperone, formando il cordone. Ogni anno successivo si taglierà con potatura corta. Questo sistema ha avuto successo e si è diffuso per l’ottima gestione della qualità della vigna ma anche per una potatura semplice e veloce.

 

 

Nelle nostre vigne storiche abbiamo anche:

039Alberello: presente tradizionalmente nei luoghi di antica cultura greca o fenicia, una delle forme più antiche. È adatto a terreni estremamente siccitosi, scarsamente fertili, oppure ventosi o molto freddi, dove conviene avere una vegetazione contenuta e che rimane prossima al terreno. È nel punto più basso della scala di produttività, con gradazioni zuccherine fra le più alte. Si trova in Valle d’Aosta (che è semiarida) e Sicilia, per ragioni climatiche opposte. La potatura può essere cortissima, come da noi (l’alberello greco vero e proprio, la vites capitatae di Columella), corta o anche lunga o mista, a seconda dei territori e delle varietà.

0B2130BB-DB45-4290-A84B-F6BB1B942241La pergola: la raffigurazione più antica è nelle tombe Egizie, dove è rappresentata a forma di tunnel, come noi l’abbiamo riprodotta a Guado al Melo. Ai tempi dei romani si idearono pergole orizzontali, chiamate jugatio compluviata, per coprire viali e terrazze, descritte sia da Columella che da Varrone. Se ne sono poi sviluppate tantissime varianti, alcune più adatte all'uva da tavola, altre a quella da vino. È una forma a vite alta, con i tralci ben distribuiti su una superficie più o meno inclinata, per captare al massimo i raggi solari, evitare i ristagni di umidità, ma non dare eccessivo vigore. Per il vino, è molto usata nelle zone di montagna, come il Trentino.  La potatura può essere di diverso tipo, a seconda dei territori e delle varietà.

040La vite alberata o maritata: una delle forme più antiche in assoluto, quella della nostra tradizione primigenia. Ne ho già parlato a lungo (qui, qui e qui). Nelle forme primitive non era potata per nulla. Più tardi e fino al Novecento, era sottoposta a potatura lunga e rada (ogni due anni o anche tre). Era il sistema che garantiva più longevità in assoluto alla vite, che diventava di frequente ultracentenaria (prima che arrivasse la fillossera a complicare la vita dei vignaioli).


Al Vinexpo di Parigi col TreBicchieri WorldTour

Saremo a Parigi martedì 11 febbraio col TreBicchieri World Tour del Gambero Rosso, a Vinexpo.

In assaggio soprattutto il vino premiato, Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017, oltre che i nostri grandi Rossi.

Vinexpo Paris, Porte de Versailles

Pad. 7.2

martedí 11 febbraio, orario 14.00-18.00


Presentazione Cuzziol GrandiVini a Milano

Lunedì 20 gennaio, ci sarà a Milano, all'hotel Gallia, la presentazione del catalogo del nostro distributore per l'Italia, Cuzziol GrandiVini. Ci sarà anche Michele, che vi racconterà della nostra produzione artigianale e sostenibile e vi farà degustare i nostri vini.

Ricordo che è un evento dedicato ai clienti professionali. L'accesso è previo accredito. Nel caso, chiamateci o scriveteci (tel. 0565 763238; info@guadoalmelo.it ).

Ecco le aziende in degustazione.

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Vi aspettiamo!


Antica Roma: una vigna persa nella traduzione

“Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, …?” Plinio

 

Oltre a Plinio, anche Orazio racconta che i Romani consideravano la viticoltura come una delle più grandi risorse economiche della nazione. Catone la pone al primo posto fra le colture per redditività. Non ci stupisce: l’Italia è la terra di elezione della vite e ancora oggi ne ha il primato produttivo.

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L'amore dei Romani per la viticoltura non aveva solo fini economici ma profondi significati culturali. L'agricoltura in generale era considerata l'attività moralmente più degna, espressione dei valori dei padri su cui si fondava la nazione. La triade principale era vite, olivo e grano. La viticoltura era comunque preminente, come dice Orazio: "Non piantare, o Varo, nessun albero prima della sacra vite". Per Cicerone rappresentava anche l'attività ideale a cui dedicarsi una volta lasciati gli affari più mondani, in età matura. Anche Tibullo scrive: "Io stesso da contadino pianterò tenere viti a tempo opportuno...".

Penserete: cosa si può dire della viticoltura romana che non è già stato detto e ridetto?

Sebbene sia stata ben descritta dai Rustici Latini (le nostre fonti: vedi qui), esaminata in lungo ed in largo da studiosi di tutti i secoli, la viticoltura romana è stata spesso travisata, per malintesi linguistici e culturali. Questo fatto ha fatto perdere spesso la percezione di quello che è il suo tratto originario ed assolutamente distintivo: la coltivazione della vite maritata all’albero (o vite alberata) di matrice etrusco-laziale, forma che rimarrà in Italia fino alla prima metà del Novecento. Questa forma di coltivazione è presente anche in altre culture antiche ma in Italia ha rivestito un ruolo particolarmente importante e duraturo per millenni.

La viticoltura a Roma, come per quasi tutti i popoli italici, si perde nella storia. Fin da quando l’uomo ha calpestato le nostre terre, ha da sempre raccolto le uve selvatiche nei nostri boschi mediterranei. A Roma il passaggio verso la viticoltura vera e propria sembra sia avvenuto per influenza etrusca. Sulle origini della viticoltura in Italia ho già parlato in modo più approfondito qui.

La viticoltura originaria romana era quindi la stessa degli Etruschi, un sistema d'allevamento basato sul modo naturale di crescita della vite. Nel bosco infatti essa usa gli alberi come sostegno per raggiungere la luce. In Etruria si utilizzavano soprattutto aceri, a Roma soprattutto olmi. In latino questo sistema di coltivazione era detto arbustum vitatum (vite alberata), col vitatum spesso omesso. Più poeticamente, era usato anche il termine vitis maritae, viti maritate (all'albero). Ho già descritto più in dettaglio questi aspetti qui.

Se vogliamo quindi immaginarci il classico paesaggio agricolo dell’epoca romana, dobbiamo pensare ad una campagna con viti maritate ad alberi disposte a filari o a quinconce (come il numero 5 su un dado), indexcon strisce di terreno intermedie dove si seminava il grano (o altre colture). Naturalmente non mancava l’olivo.Raffaello_Sorbi_-_La_festa_della_vendemmia 1893

Non è un mondo agricolo così distante da noi, anche se oggi dimenticato. Ancora ad inizio Novecento, il vino Chianti era prodotto da un modello di viticoltura molto simile, ben raffigurato in quest'opera di Raffaello Sorbi (1893): vigne con viti maritate (sistema detto in Toscana “testucchio”), alternate a strisce di grano o altre colture, gestite da coloni in mezzadria. Erano identici anche i buoi con la museruola  (la consiglia anche Plinio, poi vedrete).

Solo più tardi Roma ingloberà anche la viticoltura di origine greca, la vigna bassa, con l'alberello senza sostegno o con un sostegno "morto" (il palo), portando poi avanti entrambe.

 

Lost in translation.

Mi rifaccio al titolo di un noto film di diversi anni fa, Lost in traslation (perso nella traduzione), che rende bene l'idea di quello che è successo con la viticoltura dell’antica Roma, spesso travisata per problemi di traduzione o culturali.

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Purtroppo è anche colpa nostra. L'Italia moderna del vino non si è curata molto del suo immenso patrimonio storico-culturale, occupandosene solo in modo superficiale. Spesso la narrazione della storia del vino (compresa la nostra) in epoca moderna, è stata lasciata in mano ad autori estranei alla nostra cultura, che non avevano gli strumenti sufficienti per capirla.

La viticoltura romana è stata quindi spesso identificata solo con la vigna bassa. Studiosi o divulgatori estranei alla cultura italiana e/o senza competenze agrarie approfondite non conoscevano neppure l'esistenza della vite maritata all'albero. Altri  l'hanno considerata assolutamente secondaria, una forma primitiva di scarso interesse, soppiantata presto dalle tecniche di prevenienza greca, considerate più avanzate. Ogni volta che veniva trovato il termine vigna (vinea) negli autori latini, si dava per scontato che ci si riferisse alla vigna bassa. Hugh Johnson, ad esempio, cita l'esistenza della vite alberata ma scrive che "gli autori antichi non ne parlano mai" (sic!).

Il termine latino specifico per la vite alberata, arbustum, è stato ampiamente frainteso, tradotto spesso come bosco. Apollinaire lo traduce come bouquet d’arbre, boschetto, così come diversi autori tedeschi (Jungholz) ed anglosassoni (plantation of trees). Così succedeva che non ci si accorgesse dell’assurdità di far dire a Varrone, per esempio, che da quel “bosco” si producevano certe quantità di vino e di grano!

Della vite alberata non parlano solo gli autori più agrari ma anche i poeti, (cosa che non succede con la vigna bassa). In Catullo, nei Carmina, la vite e l'olmo sono descritti come moglie e marito. Nell'epoca augustea è citata spesso da Virgilio ed Orazio, ma chi ne parla più di tutti è Ovidio, che la usa frequentemente come metafora d'amore negli Amores, nei Fasti, Heroides, Tristia e nelle Metamorfosi, nella storia di Vertumno e Pomona (vedete qui).

Come già accennato in precedenza sull'origine della viticoltura in Italia (qui), solo negli ultimi decenni ci sono stati diversi studi multidisciplinari (fra archeologia, linguistica e viticoltura) che hanno cercato di fare più luce sulle nostre origini viticole. Soprattutto è stato il lavoro di Paolo Bracali dell'Università di Perugia  che ha chiarito il significato dei termini latini legati alla vigna ed il loro cambiamento nel corso della lunga storia romana.

 

Vinea o arbustum?

Catone, il primo dei Rustici Latini, è abbastanza chiaro quando scrive che per realizzare bene una vigna è necessario "che gli alberi siano ben maritati alle vite e che queste siano in numero sufficiente". La vigna, dalle origini ed ancora nella sua epoca, era fatta solo da viti maritate agli alberi. Egli la indica col termine generico vinea o, quando vuole sottolineare la forma di allevamento, quello più specifico di arbustum.

[one_third][info_box title="" image="" animate=""]*Cicerone racconta la storia di Atto Navio, giovane guardiano di porci dalle capacità divinatorie.  Un giorno perse una scrofa in una vigna e fece voto a Giove, se l’avesse ritrovata, di offrirgli il grappolo più grande. Così successe e, per adempiere al voto, suddivise la vigna in diverse parti ed interpretò il volo degli uccelli per ciascuna, secondo gli usi divinatori di derivazione etrusca. Così facendo trovò un grappolo di incredibile grandezza e bellezza, da donare al dio. Il giovane divenne poi l’augure ufficiale del primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco.

Questo mito è considerato alle origini del rito romano dell’auspicatio vindemiae. Prima della vendemmia il Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove, offriva al dio un grappolo scelto da una vigna pubblica. Il rito serviva a garantire un buon raccolto e dava l'avvio ufficiale all'epoca della vendemmia. Per questo, il periodo della festa variava ogni anno. [/info_box][/one_third]Fino alla tarda epoca repubblicana quindi, ogni volta che si parla di vinea, ci si riferisce solo alla vite alberata, la forma tradizionale di viticoltura romana. Molti di questi autori non spiegano come è fatta, non hanno intenti agronomici, ma possiamo accorgercene anche da alcuni particolari. Cicerone, ad esempio, racconta un mito in cui un pastore porta dei maiali in una vigna*. Non può essere altro che una vigna alberata, visto che è praticamente impossibile che si portassero a pascolare porci in una vigna bassa con i frutti maturi (se li sarebbero mangiati!).

Fedro, che traduce e riadatta le favole di Esopo nel I secolo a.C., nella famosissima storia della volpe che non riesce a raggiungere l’uva, usa il termine “vinea alta”. Si inizia a intravedere qui un cambiamento. Infatti usa ancora la parola vinea alla maniera antica, ma sente l'esigenza di aggiungervi quell’alta. Forse teme di non essere capito?

Infatti Roma aveva ormai annesso diversi territori che erano state colonie greche, nei quali la vite era coltivata bassa, ad alberello, sostenuta a volte da un palo. Entrò quindi a far parte della cultura romana anche quest'altro sistema di coltivazione. L'esigenza di non confonderli portò ad un cambio linguistico che sembra fissarsi negli ultimi decenni del I sec. a.C.arton152530-3ac1b

Varrone sembra essere il primo ad usare due nomi distinti per indicare i due sistemi di coltivazione. Da lui in poi, nei testi latini, l'arbustum restò ad indicare la vite maritata, mentre vinea divenne il termine preferenziale per la vigna bassa. Il vinetum comprendeva entrambi, così come a volte anche vinea (...tanto per non rendere le cose troppo facili…).

Capite quindi la difficoltà? Era facile per traduttori poco esperti di aspetti viticoli perdersi, soprattutto scambiando l'arbustum per un boschetto, non capendo neppure che si stesse parlando di una vigna.

 

Vigna alta o vigna bassa?

Dalla tarda epoca repubblicana e sopratutto in quella imperiale, quindi, erano presenti entrambe le forme viticole.

In molti testi di storia del vino si trova una suddivisione schematica secondo la quale la vigna bassa era propria delle grandi ville schiaviste, con una produzione intensiva e di maggiore qualità. L’arbustum è relegato a contesti più primitivi o meno specializzati. Si tratta di una interpretazione che sembra rispecchiare però una concezione novecentesca di viticoltura, piuttosto che la comprensione dell'epoca.

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Gli studi degli ultimi decenni, infatti, hanno portato a riconsiderare questo modello. Il concetto di specializzazione e di coltivazione intensiva ai tempi di Roma era differente da quello moderno. L’agricoltura promiscua era comunque prevalente, anche nelle grandi villae. Inoltre, la presenza dell'una o altra forma viticola sembra rispondere più alla tradizione culturale del luogo che alla dimensione aziendale o alla qualità del vino (pur con le dovute eccezioni), così come testimoniato da Virgilio, Plinio il Vecchio e tanti altri.

Ad esempio, Plinio il Giovane (nipote dell'altro Plinio) aveva grandi proprietà nell’alta valle del Tevere, che gli fruttavano ingenti guadagni nella vendita del vino a Roma. Plinio dice che i suoi coloni usavano coltivare “sotto e sopra”, dove per “sopra” s’intende la vite alberata e con “sotto” i cereali, in linea con la tradizione più antica locale. Plinio, parlando della sua attività di avvocato, usa questa metafora agricola che ci testimonia l'agricoltura promiscusa: “Come in agricoltura non curo e coltivo soltanto la vigna bassa (vinea), ma anche quella alberata (arbustum), e non solo la vite alberata ma anche i campi e negli stessi campi non semino soltanto farro o frumento, ma anche orzo, fave e altri legumi, così nella discussione di una causa, spargo ampiamente diversi argomenti, come se seminassi, per raccogliere quello che ne nascerà”.

Poteva quindi esserci una certa variabilità nelle scelte viticole. Tuttavia la prevalenza della tradizione locale è anche dimostrata dal fatto che  le frontiere culturali viticole più antiche sono rimaste più o meno tali e quali, in Italia, fino al Novecento, così come sottolineato da nostri autori Ottocenteschi (come il Manzi) e ripreso più tardi da Emilio Sereni. A grandi linee, l'alberata rimase predominante nell'Italia centrale e settentrionale, dove era arrivata nel passato la tradizione Etrusca (compresi i popoli confinanti influenzati da essa). La vite bassa rimase prevalente nell'Italia del sud e in tutte le zone di antica cultura viticola greca. (vedete qui)

 

Nell'interpretazione moderna, la vite maritata è stata spesso legata alla produzione di un vino di scarsa qualità. I Romani però non la pensavano esattamente così. Plinio il Vecchio testimonia che i vini più rinomati della sua epoca, i famosi vini campani, capaci di lunghissimi invecchiamenti, derivassero proprio da viti maritate.

18Egli è un sostenitore della vite alberata rispetto a quella bassa, così come Columella. Gli autori latini elencano una serie di vantaggi, considerati tali, in diverse parti d'Italia, fino all’inizio del XX secolo. Anche numerose fonti storiche e letterarie successive, dall’editto di Rotari (645 d.C.) fino alle opere ottocentesche, indicano la vite maritata come la più adatta all’economia dell’azienda agricola ed agli interessi del proprietario.

L’uva, tenuta lontana dal suolo, era più protetta dal gelo e dall'umidità. Le fronde dell'albero la preservavano (in parte) da altre avversità, come la grandine. Inoltre, nel passato era considerato un notevole pregio poter sfruttare lo stesso appezzamento di terreno per più usi. Deponeva a favore della vite alberata il fatto di poter coltivare senza problemi, fra i filari, il grano o altre colture. Vi si potevano far pascolare gli animali per buona parte dell’anno, senza rischi per l’uva o i germogli (salvo non vi fossero altre colture in mezzo da proteggere). All'epoca era comune che il proprietario affittasse il pascolo anche a pastori esterni. Nella vigna bassa invece tutto questo era possibile solo nel periodo di riposo della vite. In più, l'alberata permetteva il risparmio di recinzioni e siepi, essendo l’uva più protetta anche dagli animali selvatici. Solo il bestiame di grossa taglia è pericoloso per le vigne alte. Plinio infatti consiglia di mettere la museruola ai buoi quando si ara il terreno.

Quando Catone fa la sua famosa graduatoria delle coltivazioni economicamente più interessanti, ci ricorda che la vite alberata dà doppia redditività. Infatti la mette al primo posto come viticoltura vera e propria, ma la fa tornare anche all’ottavo posto per quanto si ricava dagli alberi di sostegno: le foglie come foraggio, le potature dei rami come legna da ardere, i frutti nel caso si utilizzassero alberi da frutto (Catone cita molto l'uso del fico). Questo passaggio è stato uno di quelli più travisati: la vinea al primo posto era interpretata come vite bassa e l’arbustum, all’ottavo posto, come un boschetto qualsiasi.

Non è che ci fossero solo vantaggi. Gli stessi Romani riconoscevano la difficoltà dei lavori. Plinio racconta che, alle origini, re Numa introdusse l'obbligo di potatura delle viti, ma i Romani non volevano salire sugli alberi, anche molto alti, per paura di cadere. Sembra che da allora s'introdusse l'uso di garantire ai vignaioli, nel contratto di lavoro, anche le spese del funerale. A parte i miti, Columella cita i Saserna, proprietari della Gallia Cisalpina, che giudicavano questo sistema troppo costoso.

Nei secoli successivi (soprattutto nell'Ottocento) continuerà la disputa che dividerà gli esperti fra detrattori e sostenitori. Si riconoscevano diversi aspetti negativi come l'ombreggiatura delle viti, la competizione fra le due specie (nei terreni non abbastanza fertili) con scarsa corposità dei vini, la lentezza a raggiungere la produzione ottimale di uva, i maggiori costi di potatura e vendemmia, l'impossibilità di una pur minima meccanizzazione, ... La grafiosi degli anni '20 del Novecento tolse parecchi indugi all'abbandono di questa forma tradizionale, facendo morire la maggior parte degli olmi. Semplicemente non c'era più spazio per la vite maritata, in un mondo contadino ormai al tramonto.

XsSE5YeVorrei infine ricordare che l'epoca romana, soprattutto nella fase Imperiale, fu caratterizzata da un periodo climatico piuttosto caldo. Anche ora, con i cambiamenti del clima in corso, ci siamo resi conto che bisogna rivedere gli equilibri produttivi di soli venti-trent'anni fa. Non si può escludere a priori che una forma espansa, se ben gestita, nel clima e nel terreno adeguato, non possa comunque produrre vini di buona qualità. Fra l'altro Columella ci testimonia come, all'apice della loro viticoltura, i Romani avessero ben chiaro il concetto del legame fra equilibrio produttivo e qualità del vino (almeno negli ambiti più acculturati), un aspetto che sarà "riscoperto" solo parecchi secoli dopo.

 

La vite maritata in giro per l’Europa (e non solo).
Jules Guyot — Étude du vignoble français 1867
Jules Guyot — Étude du vignoble français, 1867

Della lunga "carriera" della vite maritata all'albero in Italia ho già parlato qui. Uno dei grandi meriti di Roma è di aver diffuso la viticoltura in altre parti d'Europa, tramite i suoi legionari. Anche qui si è dato per scontato che fosse solo la vigna bassa. In realtà portarono anche quella maritata. Di essa si trova infatti traccia nella storia viticola di altri territori europei.

Ricordo anche che altri sistemi di allevamento a vigna alta, con pali o pergolati, furono diffusi sempre dai Romani. Questi sono ancora presenti in molte parti d'Europa.

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Vendemmiatrici a Arles, 1903.

In Francia si trovano diverse tracce dell'antica tradizione dell'alberata. Le vigne alte (in generale) sono dette hautains. Le alberate vere e proprie erano numerose in epoca Medioevale in numerosi territori, ad esempio in Piccardia oppure in Provenza (su alberi di noci). Nel XIV secolo, ci sono documenti che ne dimostrano la diffusione ad Avignone. Olivier de Serres in “Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs” ne testimonia ancora la presenza nel XVII secolo, soprattutto nella Brie, Champagne, Borgogna, Berri, Alto Delfinato (su ciliegi), Savoia e nella valle del Rodano. Fino all'inizio del XX secolo si potevano ancora trovare soprattutto nell’Alta Savoia e nella zona dei Pirenei occidentali baschi. Sono sparite del tutto dopo la fillossera.

Nel Portogallo nord-occidentale è rimasta ancora oggi la tradizione della vigna alta, con pali ma a volte ancora l'alberata vera e propria, col nome di viña de enforcato, nella zona di produzione del vinho verde.

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Vendemmia in Portogallo

In Spagna l'alberata non ha lasciato tracce nella tradizione viticolta, anche se sappiamo che vi fu portata dai Romani. In particolare, c'è la testimonianza diretta di Columella, che l'introdusse nelle sue proprietà in Baetica. Sono rimaste solo altre forme di vigna alta in Galizia e nei paesi baschi.

L'impronta culturale antichissima è rimasta almeno in un proverbio molto diffuso, che dice: “no se le pueden pedir peras al olmo”, "non si possono chiedere pere all’olmo", citato anche da Cervantes nel Don Chisciotte. In Portogallo ne esiste uno molto simile: "Não pode o ulmeiro dar peras", "l'olmo non può dare pere". Si usano per esprimere il concetto di non poter chiedere a qualcuno qualcosa che gli è impossibile, ma la maggior parte degli spagnoli e dei portoghesi non sa perchè si dice così. L'origine si trova molto probabilmente nelle Sententiae di Publilio Siro (I sec. a.C.), che scrive: "Pirum, non ulmum accedas, si cupias pira", "non vai dall'olmo ma dal pero, se vuoi le pere". Per gli antichi Romani era più facile capire: l’olmo era il “marito” preferito della vite, per cui non poteva certo dare pere, se mai l'uva.

Se gli spagnoli abbandonarono l'alberata in madre patria, la portarono nel Nuovo Mondo, con altre forme di vigna alta. Avevano bisogno di vino per la Messa, per cui piantavano vigne ovunque andassero. Ci riuscirono anche in Bolivia, nella valle del Cinti, ad un’altitudine di 1900-2550 metri slm, dove era veramente difficile pensare di coltivarci la vite. Eppure risolsero il problema “rispolverando” l’antico sapere romano, con viti maritate ad alberi indigeni, anche altissimi, l'unico modo per preservare germogli ed uva in quel clima così difficile.

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Alberate in Bolivia

Se volete vedere ancora la vite maritata, potete trovarla da noi, a Guado al Melo.

(...continua...)

 

Bibliografia:

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Paolo Braconi, "Catone e la viticoltura intensiva".

Paolo Braconi, "In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in epoca Romana.

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Attilio Scienza, "Quando le cattedrali erano bianche", Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana.

Attilio Scienza et al., Atti del Convegno "Origini della viticoltura", 2010.

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https://fr.wikipedia.org/wiki/Hautain