Appunti di storia della viticoltura:

Nella “folla oscura, sovente anonima” delle varietà di uva da vino

La copertina

Ora ci sembra quasi banale parlare di vitigni: quando descriviamo o chiediamo spiegazioni su un vino è spesso la prima cosa a cui si pensa. Se però torniamo indietro nel tempo, scopriamo che nel passato non era così scontato e che la transizione in questo senso è relativamente recente.

 A questo proposito è molto interessante il volumetto di Giovanni Dalmasso, Uve da vino – vitigni rossi (ed. Federazione   italiana dei consorzi agrari  – Piacenza – 1931) che fa parte della nostra biblioteca.

Dalmasso (grande scienziato italiano, docente di viticoltura, ricercatore e scrittore) in poche pagine, in un testo essenzialmente divulgativo, fotografa benissimo questo grande cambiamento in atto, le problematiche e le difficoltà.

Siamo negli anni Trenta e Dalmasso scrive il libro per presentare alcune delle varietà di uve rosse che reputa fra le migliori per la produzione di vini rossi in Italia. Il suo fine è quello di intervenire in modo radicale nel mondo produttivo italiano a causa della grave crisi vinicola in atto.

La crisi è dovuta ad una produzione eccessiva di vino ed una concomitante riduzione dei consumi. Il problema non è solo italiano ma mondiale. Dal 1900 al 1929, riporta, la superficie vitata mondiale è aumentata di quasi mezzo milione di ettari e la produzione per ettaro è aumentata in tutto il mondo. Viceversa il consumo è diminuito: si è arrivati a una media di 55 litri a testa all’anno (oggi il consumo in Italia è sui 35 litri a testa, in alcuni paesi poco più di 40). Dalmasso invoca la necessità di una soluzione radicale e risolutiva. L‘autore ricorda come le crisi da sovraproduzione vinicola si sono ripetute sovente nella storia e ogni volta l’unica soluzione proposta è stata la riduzione delle superfici vitate. Da Domiziano in poi, ricorda Dalmasso, lo stesso imperativo è ricomparso: ”Meno vino e più pane!” Tuttavia, in Italia la vite è troppo preziosa por poterla diminuire senza ripercussioni sull’economia generale del paese e sulla vita dei vignaioli.

Secondo Dalmasso, piuttosto che estirpare vigneti, sarebbe meglio cercare di impedire ulteriori estensioni e, nello stesso tempo, cercare di migliorare la qualità del vino, riducendo quindi la resa produttiva. Tuttavia la strada è lunga e la fotografia che fa della produzione vinicola del suo tempo è impietosa: a parte poche situazioni, la qualità dei vini è molto scarsa. Nonostante le migliorie del settore degli ultimi decenni, la viticoltura italiana è scarsa in innovazione, cristallizzata sul passato.

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Secondo Dalmasso una delle più gravi cause di debolezza del vino italiano è da imputare alla bassa qualità dei vecchi vigneti. Sono fatti in modo confuso: accanto a vitigni di pregio si mescola una “folla oscura, sovente anonima” di varietà scadenti o poco produttive o di pessima qualità. Tutte queste uve vengono poi vendemmiate insieme, oltretutto alcune ben mature e altre quasi acerbe. La situazione è desolante: per questo (e altri motivi) la maggior parte dei vini italiani sono mediocri. I costi di produzione sono alti ma data la scarsa qualità si spuntano prezzi modesti che in anni difficili diventano addirittura disastrosi. Di qui la necessità di svendere o di avviare alle distillerie e agli acetifici una parte della produzione vinicola. Solo pochi produttori illuminati, che hanno saputo rinnovare le loro vigne, hanno mostrato un miglioramento notevole.

È quindi necessaria la ristrutturazione delle vigne d’Italia. In questo senso potrebbe quasi diventare un’importante occasione di rinnovamento la grande crisi della fillossera (evidentemente negli anni ‘30 non si era ancora superato del tutto il problema, anche se il rinnovo delle vigne era iniziato con la fine dell’Ottocento). La ricostruzione delle vecchie vigne distrutte potrebbe essere l’occasione di questo grande cambiamento.

Tuttavia Dalmasso sottolinea come non sia solo la scelta varietale a dare qualità. Deve cambiare anche l’impostazione produttiva generale, le forme di allevamento, le potature, ecc.. Inoltre, l’introduzione di nuove varietà su larga scala avrebbe bisogno prima di sperimentazioni adeguate, per verificare l’adattamento a quel determinato territorio. Lo stesso vale per le esigenze colturali: anche un buon vitigno può dare risultasti mediocri se coltivato in modo improprio.

Questo libro ci apre gli occhi su un momento fondamentale di quello è stato il grandissimo cambiamento della viticoltura italiana. Pochi illuminati stanno seguendo o seguiranno a breve questa via. Mi viene spontaneo pensare al primo grande motore del risorgimento della viticoltura del nostro territorio: Mario Incisa della Rocchetta. Pochi anni dopo questo libro, si parla degli anni ‘40, sicuramente ispirato dal fermento rinnovatore del suo tempo, fu fra quei pochi che dedicò anni di lavoro e sperimentazione alla ricerca di varietà più adatte al nostro territorio, per andare oltre alla massa anonima usata fino ad allora.

All’epoca in cui scrive Dalmasso, le varietà hanno già iniziato ad avere nomi, personalità ed esigenze colturali definite. Eppure il mondo produttivo fa molta fatica ad accogliere questi cambiamenti e ci vorranno ancora molti anni prima che siano recepiti in modo diffuso.

La spinta all’innovazione del primo Novecento italiano trova le sue basi nella nascita recente di una disciplina fondamentale in questo senso (e a cui lo stesso Dalmasso dà un notevole contributo): l’ampelografia.

Tuttavia la sua nascita non fu facile …. (CONTINUA qui  qui e qui)

 

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