Bruce Watt, University of Maine, Bugwood.org
Bruce Watt, University of Maine, Bugwood.org

Se è stato relativamente facile trovare vie sostenibili per altre avversità (vedi qui, qui, qui e qui), per la peronospora il tutto è un po’ più complicato. Eppure oggi esistono sistemi abbastanza ottimali per “uscirne vivi”, con un basso impatto ambientale, in attesa che la ricerca ne trovi ancora migliori.

Non la si può ignorare: rimane ancor oggi, in condizioni climatiche avverse, la malattia più difficile da gestire per non avere ripercussioni anche importanti sulla qualità e quantità di uva.

rymNZe3Prima di tutto però contestualizziamo il problema: la peronospora si scatena nei periodi piovosi o di alta umidità. Questo fa sì che per noi e per buona parte d’Italia sia un problema abbastanza saltuario e in genere ben gestibile senza troppi sforzi, salvo annate particolari. Siamo in un territorio con clima mediterraneo, ventilato, tendenzialmente arido, come quasi tutto il Centro Italia costiero e, a maggior ragione, il Sud.

Le problematiche maggiori e ricorrenti sono invece per i vignaioli con un clima più continentale e umido, soprattutto del centro e del nord Italia, per non parlare della tragedia di chi sta oltre le Alpi (Svizzera, Germania, Francia, ecc.). Considerate quindi che il massimo dell’impiego dei prodotti antiperonospora è in questi paesi.

È causata da un fungo (Plasmopora viticola) che, in condizioni d’alta umidità, attacca tutte le parti verdi della pianta. All’inizio si vede sulle foglie, con macchie biancastre. Poi si può propagare al resto, causando il disseccamento delle parti colpite, compresi i grappoli (come la parte bassa nella foto). Se l’infezione è più tardiva, i grappoli possono anche non avvizzire ma comunque maturano male (per la precoce caduta delle foglie), con effetti negativi sulle componenti e gli aromi del vino.

Fron_948459È il terzo flagello della vite arrivato dall’America nell’Ottocento. Fu trovata in Francia nel 1878, in Italia nel 1879. L’anno seguente aveva già invaso l’Italia Settentrionale, la Toscana e l’Austria. Nel 1881-82 si era già diffusa in tutti i paesi viticoli europei ed extra-europei.

Alle sue prime apparizioni in Europa dava solo danni lievi e in fasi tardive (solo qualche perdita di foglie), al punto da rendere quasi felici i vignaioli perché sfogliava “gratis” le vigne.

Col tempo però i danni peggiorarono sempre più. Iniziò ad attaccare anche i tralci, le infiorescenze ed i grappoli, con cali nelle produzioni anche importanti, con anni di vere e proprie devastazioni. Non c’era pace per i vignaioli: dopo oidio e fillossera, fu di nuovo il terrore.

Alexis03Pochi anni dopo però si trovò un sistema di difesa, grazie all’intuizione dell’agronomo francese Alexis Millardet. Aveva osservato che i grappoli di una vigna, spennellati di verderame per scoraggiare i furti dei passanti, risultavano meno colpiti dalla malattia. Nel 1885 Millardet mise a punto la cosiddetta “poltiglia bordolese”, una miscela in acqua di calce e solfato di rame. Per decenni fu la più usata, ma si svilupparono anche altre formulazioni.c-est-a-l-epoque-ou-le-vignoble-francais-subit-les-attaques-de-mildiou-qu-alexis-millardet-et-ulysse-gayon-inventent-la-formule-de-la-bouillie-bordelaise

La scoperta di questo prodotto permise di contenere i danni, senza essere risolutivo, soprattutto per le annate più difficili. A seconda della gravità degli attacchi, legati agli andamenti stagionali, non mancavano annate in cui la produzione di vino subiva abbassamenti, a volte anche importanti. Ad esempio nel 1889, 1900 e 1915 la produzione di vino diminuì di oltre il 50%, a causa delle condizioni climatiche che favorirono oltremodo questo fungo.

I limiti di questa difesa erano diversi: una certa tossicità sulla vite stessa, la scarsa efficienza, le difficoltà di un prodotto di copertura che era però facilmente dilavato dalla pioggia, con la necessità di ritrattare ogni volta per proteggere la vigna (a volte impossibile se le piogge erano battenti per giorni).

bouillieSi consideri che le formule più tradizionali di rame avevano un’efficienza molto bassa, pari al 5%, alcune anche inferiori al 1%, tutto il resto del prodotto era rilasciato inutilmente nell’ambiente. Oggi va un po’ meglio, le formulazioni rameiche industriali attuali hanno un’efficienza maggiore e sono studiate per aderire meglio alla pianta. Resta il fatto che, in situazioni di alta pressione della malattia, è comunque una difesa che ha dei limiti: può far perdere una parte della produzione, a volte anche importante, se non si decide di ricorrere ad altro (a volte c’è un elefante che gira per le vigne, come dicono gli anglosassoni e come scrive qui Miles Edlmann).

Comunque queste problematiche produttive (l’ambiente allora non era una priorità) spinsero a cercare sistemi di difesa più efficaci.

[one_second][info_box title=”Il rame, luci e ombre” image=””]verde-rame_NG1 Gli studi di sostenibilità degli ultimi decenni hanno messo in pensione diversi prodotti fitosanitari del passato o portato ad un uso più restrittivo per altri. Anche il rame sta seguendo questa sorte, ma la riduzione sta avvenendo con molti ritardi, cautele e anche polemiche. Questo succede perché, nonostante tutte le problematiche, è rimasto il prodotto di riferimento della viticoltura biologica e (per ora) non si sono trovati degni sostituti che rispondano ai criteri di questa impostazione ideologica.

Il rame ha di fatto salvato storicamente la viticoltura dalla peronospora ma, con la recente attenzione alla sostenibilità, è stato bocciato su diversi fronti. Se ne è usato tanto, tantissimo negli anni difficili e nelle zone più a rischio. Soprattutto nelle vecchie vigne dei paesi continentali (come la Francia) si sono trovati accumuli incredibili di questo metallo pesante.

Gli studi degli ultimi anni  (qui trovate una review, se volete approfondire) hanno dimostrato che tende ad accumularsi nei suoli delle vigne perché non si biodegrada.  Quello che le piante assorbono per il loro fabbisogno è veramente minimale (è un oligo-elemento). Il problema è che sta lì e continua il suo lavoro di biocida, ecotossico verso animali e piante. Soprattutto diminuisce l’attività microbica nel suolo ed è tossico per i lombrichi, anche a basse concentrazioni.  Ad alti livelli è tossico per la maggior parte delle specie vegetali: prima del suo uso come fungicida, in passato, era usato come diserbante. L’azione tossica è più critica nei suoli acidi, perché in queste condizioni si lega meno alle particelle del suolo e rimane più disponibile alle piante. Per fortuna è poco solubile (la solubilità aumenta però nei terreni a pH più basso), per cui non passa molto nella falda acquifera, perché si è dimostrato tossico per i pesci e altri organismi acquatici.

Curiosamente, per l’uomo, il rame non è stato oggetto di molti studi medici (così come altri prodotti tradizionali dell’agricoltura). Si sa che è irritante per occhi e pelle, tossico se ingerito. Nel 1969 ci fu uno studio medico che identificò la “sindrome polmonare degli spray da vite” per i vignaioli, che sembrava causare insufficienza respiratoria o danni al fegato. Un articolo del 1977 dell’Organizzazione mondiale della sanità ha riportato l’alta incidenza di cancro delle cellule alveolari nei “vignerons” di Bordeaux. Poi non c’è stato più nulla a sostegno ma neppure contro. Ricordo che però oggi, fortunatamente, non siamo più nelle condizioni di allora. Chi opera in vigna, salvo superficialità personali, fa dei corsi per un uso responsabile dei prodotti e dovrebbe usare dispositivi di protezione adeguati.

Fin dal principio si era invece capito che era fitotossico per la vite stessa. Tuttavia si tollerava perché non c’era altro. La pianta non muore, ma ha dei deperimenti di sviluppo e di produzione. La tossicità è più intensa a basse temperature (sotto i 10°C), sullo sviluppo delle foglie giovani e soprattutto sui fiori della vite. In estate, fra l’allegagione e l’invaiatura, può dare invece alcuni effetti favorevoli per il vignaiolo. Induce un certo rallentamento dello sviluppo vegetativo che, in questo momento, può essere utile. Inoltre il rame stimola una risposta di difesa della pianta che porta ad una maggiore lignificazione dei tralci e un ispessimento della cuticola degli acini, rendendoli meno suscettibili ad altre malattie (oidio ed altre muffe).

Nonostante l’ampio uso in vigna, rispettando i tempi di sospensione dei trattamenti prima della vendemmia, non sembra dare problemi di accumulo nell’uva e di residui nel vino, dove rimane in genere al di sotto dei limiti legali (1 mg/l). Sembra però che, per alcune varietà, abbia un’azione di modifica dell’espressione aromatica.[/info_box] [/one_second]

Negli anni ’30-’40 s’introdussero i primi prodotti di copertura acuprici (non a base di rame), con i soliti problemi di dilavamento da pioggia, ma che almeno non erano fitotossici sulla vite. Per superare i problemi di dilavamento e di efficienza, alla fine degli anni ’60 nacquero i primi prodotti sistemici (come medicine, entrano nella pianta), alcuni anche con capacità curative, in grado di proteggere anche la vegetazione in accrescimento. Più recentemente sono stati introdotti i prodotti citotropici, che entrano nei tessuti della pianta ma solo nelle zone vicine al contatto.

Negli ultimi decenni la ricerca si è invece focalizzata sulla sostenibilità dei prodotti, in modo che fossero meno ecotossici e più biodegradabili, abbandonando (o restringendo) l’uso dei fungicidi peggiori del passato.

Raymond Queneau, 1968
Raymond Queneau, 1968

Le sostanze fungicide più vecchie sono aspecifiche, come il rame e altre, per cui colpiscono a largo raggio. Per forza di cose non aggrediscono solo il responsabile della malattia ma anche altri organismi viventi. Sono quindi, chi più e chi meno, ecotossiche, aggravate (se di copertura) dal fatto di dover essere spruzzate spesso (per la pioggia).

Per superare per questo problema, negli ultimi anni si è cercato di trovare dei principi attivi molto più specifici nell’attaccare il fungo, così che colpiscano il meno possibile altri organismi viventi. La troppa specificità però fa sì che si sviluppino più facilmente resistenze nell’organismo patogeno (lo stesso discorso degli antibiotici nella medicina). Per questo possono essere usati solo per un numero limitato di volte nel corso della stagione.

Spero che sia chiaro come questi sistemi abbiano tutti luci ed ombre. Come trarne il meglio?

L’approccio vincente della viticoltura integrata è sempre quello di affrontare ogni problema da molteplici punti di vista.

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Prima di tutto ha cercato di studiare sistemi preventivi. Per la peronospora non sono risolutivi ma, in situazione di rischio, permettono almeno di ridurre la difesa successiva. Sono interventi agronomici, simili a quelli già descritti nel post precedente per l’oidio (per cui non ci torno nei dettagli), soprattutto legati ad un’ottimale gestione della chioma.

Addirittura una volta si trattava a calendario, cioè s’interveniva tutti gli anni nello stesso periodo e con gli stessi sistemi. La viticoltura integrata ha introdotto il concetto di difesa mirata, cioè fatta solo se esiste il rischio, che in questo caso dipende essenzialmente dalle condizioni ambientali, modulandola anche in base alla reale necessità, nelle minori quantità possibili.

Ormai alcuni concetti basilari di viticoltura integrata sono diventati patrimonio comune di tutto il comparto. Il suo elemento distintivo rimane comunque quello di ridurre la difesa chimica al minimo indispensabile, visto che nessun prodotto immesso nell’ambiente, naturale o meno, è privo di problematiche.bbbb

Il punto quindi essenziale per un principio attivo, fintanto che non riusciremo a svincolarci completamente, non è tanto l’origine ma quanto:

1. la sua capacità di agire in dosi bassissime

2.la sua capacità di biodegradarsi il più rapidamente possibile nell’ambiente.

Non è ancora sufficiente però, perché nessuno dei prodotti, come spiegato sopra, è privo di pecche. Viene allora attuata un’attenta alternanza dell’uso dei diversi prodotti nel corso della stagione, così da sfruttare il meglio di ciascuno e nello stesso tempo di minimizzare le problematiche che ciascuno comporta. Nessuno va in accumulo, nessuno di quelli che può causare resistenze viene usato più del necessario, ciascuno è usato nel periodo del ciclo della vite in cui dà il meglio.

contentNon esiste però un’impostazione fotocopia, ripetuta ovunque, tutti gli anni e per ogni vigna. Il piano di difesa deve essere adeguato al livello reale di rischio, che a sua volta dipende: dalla situazione ambientale, dall’andamento stagionale, dal momento del ciclo della vite, dalla varietà d’uva, dall’impostazione della vigna, ecc.index

La viticoltura integrata però non è fatta solo di annunci: un altro elemento chiave, come già visto, è sempre il controllo a posteriori del lavoro. Quanto sto lavorando bene? In questo caso si fa misurando l’assenza di ogni residuo di difesa nel terreno, nelle falde acquifere e nel vino.

IMG_2775 (2)Il sistema di sorveglianza, per capire se è necessario e quando intervenire, è una capannina metereologica posizionata in vigna (a lato, la nostra).

Il tutto inizia in primavera. Molto in generale, vige la famosa regolina del 10-10-10: deve suonare il campanello d’allarme se si ha una pioggia di almeno 10 mm in 1-2 giorni, con una temperatura intorno ai 10°C e con i tralci sviluppati di circa 10 cm. Naturalmente si tratta di un’indicazione di massima, da interpretare caso per caso.

Dopo l’infezione si ha un periodo d’incubazione di 4-15 giorni, dopo di che compaiono i primi sintomi della malattia. È molto importante intervenire prima della loro comparsa, perché da qui partono anche le infezioni secondarie che, se persistono le condizioni climatiche umide, possono arrivare fino all’autunno.

Nelle fasi successive, i trattamenti si ripetono solo in caso di necessità, sopra ad un certo livello di pioggia e di bagnature fogliari (rugiada). Esistono delle tabelle (di Goidanich o altri modelli previsionali) che permettono d’interpretare il rischio in base all’umidità e alla temperatura. Un periodo molto pericoloso è quello della fioritura, perché l’infezione può entrare nel grappolo.

Come già scritto, noi siamo in una zona a basso rischio, con condizioni sfavorevoli al massimo limitate alla primavera (e non tutti gli anni). Questo ci consente una difesa saltuaria e comunque di norma molto ridotta. Come facciamo noi? Se mi avete seguito fin qui, avrete capito che in viticoltura integrata non ci sono scelte fisse ma cambiano col livello di rischio e con i progressi del settore. Vi faccio esempi su quanto fatto finora. Nelle annate con primavere più umide usiamo in genere prodotti di copertura non a base di rame. Nelle poche annate sfortunate in cui ci è stato richiesto un intervento in fioritura (giugno), momento pericolosissimo perchè l'infezione passa al grappolo, abbiamo usato prodotti “a tre vie” di ultima generazione, biodegradabili, multi-composti che massimizzano il successo con dosi minimali. Ancora più raro è stato per noi dover intervenire dopo l’allegagione (la fecondazione e formazione del frutto), cioè a fine giugno e luglio. Abbiamo usato allora prodotti a base di rame, perché in questa fase induce anche alcuni effetti positivi, come scritto sopra. La fase pre-vendemmiale (dall'invaiatura in poi) è invece sempre di grande precauzione. Anche nel caso raro di condizioni sfavorevoli, abbiamo sempre preferito non intervenire con nessun prodotto, tollerando un eventualmente un basso livello di malattia. L’importante è non raccogliere i frutti delle eventuali piante malate, che vengono accuratamente segnate ed evitate dai vendemmiatori. Ricordo che è comunque obbligatorio per tutti rispettare i tempi di carenza di qualsiasi prodotto fitosanitario (indicano quanti giorni prima della raccolta devono essere sospesi i trattamenti).
(nella foto, la nostra vigna) Come facciamo noi? Come già scritto, siamo in una zona a basso rischio, con condizioni sfavorevoli al più limitate alla primavera (e neppure tutti gli anni). Questo ci consente una difesa saltuaria e comunque molto ridotta. Funziona? Sì, perché dalle analisi che facciamo ogni anno abbiamo zero residui nel suolo e nel vino. Nelle annate con primavere più piovose del solito abbiamo usato in genere prodotti di copertura non a base di rame. Nelle poche annate sfortunate in cui ci è stato richiesto un intervento in fioritura (a giugno), abbiamo usato prodotti “a tre vie” di ultima generazione, biodegradabili, multi-composti che massimizzano il successo con dosi minimali. Ancora più raro è stato per noi dover intervenire dopo l’allegagione (la fecondazione e formazione del frutto), cioè a fine giugno e luglio (di solito per noi periodo di solleone, mare e spiaggia). Abbiamo usato allora prodotti a base di rame, perché in questa fase induce anche alcuni effetti positivi, come scritto nel box sopra. La fase pre-vendemmiale (dall’invaiatura in poi) è invece sempre di grande precauzione e, anche nel caso raro di condizioni sfavorevoli, abbiamo sempre preferito non intervenire con nessun prodotto, tollerando un eventuale basso livello di malattia, garantito dal buon lavoro preventivo. L’importante è non raccogliere i frutti delle eventuali piante malate, che segnaliamo ed evitiamo di vendemmiare.

Comunque la ricerca continua a lavorare,

per migliorare ancora di più la difesa da questo fungo, che rimane difficile soprattutto per gli ambienti climatici ad alto rischio. Da un lato si lavora sulle viti resistenti (vedi box sotto) anche se è un percorso non certo facile e veloce. Dall’altro si cerca di migliorare i prodotti fitosanitari attuali o trovarne di nuovi.

Un’ampia fetta della ricerca sta lavorando per riuscire a ridurre i quantitativi di rame da utilizzare, cercando prodotti integrativi o sostitutivi accettabili nell’ambito del biologico (i risultati potranno comunque essere utili per tutti). Si stanno studiando prodotti a base di fosfonati di potassio, chitosano cloridrato, estratti di alghe marine, … Sono anche nati dei prodotti a base di rame sistemici, che entrano nella pianta (per ora venduti come concimi, per cui sfuggono ai rigidi controlli dei prodotti fitosanitari). Sembra però che portino ad un maggiore accumulo del metallo nel frutto.

e520f9d433a514b9416a482f614ea6fd_XLAlla Fondazione Mach hanno sequenziato il genoma della Plasmopora viticola e hanno identificato composti volatili, rilasciati da viti resistenti, che intervengono nell’inibizione del fungo. In Francia, all’INRA, sono in corso studi su una proteina prodotta dalle lumache, che compone il rivestimento delle loro uova e le protegge dai funghi.

Sono solo alcuni esempi, si vedrà se uscirà qualcosa d’interessante.

Tuttavia credo che ormai siano chiari i limiti dell’impostazione di una difesa basata essenzialmente su prodotti da spruzzare in vigna, soprattutto se aspecifici: ognuno di questi rivela inevitabilmente criticità (che ho elencato sopra), perché un biocida uccide, qualunque sia la sua natura. Il salto vero della viticoltura sarà uscire da questa logica.

[blockquote author=”” link=”” target=”_blank”]“Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit.” (Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto, Paracelso).[/blockquote]

2015-02-25-12.04.06-pmHo già accennato agli estratti di alghe marine, che sembrano essere in grado di  diminuire la suscettibilità della vite alla peronospora. Sono solo un esempio dell’ampio mercato di prodotti integrativi che in questi anni sta fiorendo come non mai.

Sono diversi prodotti, identificati coi termini di biostimolanti, induttori di resistenza, coadiuvanti, corroboranti, ecc. Non sono prodotti di difesa o curativi in senso stretto ma sembra che aiutino le viti a resistere meglio contro certe malattie o permettano una riduzione dei trattamenti (non solo per la peronospora), altri migliorano in generale lo sviluppo e la produzione della pianta. Tuttavia è un ambito al momento abbastanza confuso e poco regolamentato (leggete anche qui), con proposte anche interessanti ed altre poco chiare.

Per fare un paragone con la medicina, i prodotti fitosanitari sono come i farmaci, questi come gli integratori alimentari.

01-14I prodotti fitosanitari (come i farmaci) per essere messi in commercio devono dimostrare alle autorità efficacia, sicurezza e qualità. Ci vogliono studi di almeno un decennio e più. Gli altri (per ora inseriti nella categoria generica dei fertilizzanti), come gli integratori alimentari umani, devono solo dimostrare sicurezza e qualità (cioè non devono essere nocivi e corrispondere ai contenuti dichiarati dal produttore). I prodotti chiamati corroboranti e i preparati biodinamici non devono neppure rispondere di questo.

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La sostenibilità è il nostro futuro e dobbiamo lavorarci sempre più. Tuttavia bisogna che sia seria, non solo un afflato emotivo, smosso spesso da immagini evocative come questa, utile solo ad alimentare il marketing.

Alcuni di questi prodotti hanno solidi studi di laboratorio alle spalle, in grado di spiegare in modo scientifico i meccanismi alla base dell’azione del prodotto. Non è così però per tutti.  Quello che si perde un po’ nella nebbia è la loro reale efficacia in vigna, la cui prova spesso è demandata agli utilizzatori.

Non è per niente facile, però, per noi vignaioli farci un’idea chiara.   Considerate come è difficile visto che sono prodotti che vanno usati insieme alla normale difesa, in situazioni dove le variabili sono notevoli (il rischio di malattia cambia ogni anno ma anche fra vigna e vigna). Il giudizio, nel bene e nel male, è quindi a volte molto personale, influenzato anche dalle proprie aspettative o credenze. A volte il successo commerciale del prodotto è indicato come parametro di valutazione dell’efficacia (come esempio potete leggere l’ultimo capoverso qui), ma a me pare un circolo vizioso.

Risposte più chiare ci saranno forse sul lungo periodo. I prodotti veramente validi col tempo hanno sempre dimostrato la loro efficacia, nonostante le giuste cautele iniziali. Per ora è veramente complicato districarsi in questa giungla di proposte commerciali. Allo stesso modo, i consumatori fanno fatica a capire cosa serve effettivamente a difendere la vigna e cosa invece serve solo a darsi una certa connotazione attraente per il marketing. Infine, comunque, ognuno è libero di spendere i suoi soldi come preferisce.

[info_box title=”Le viti resistenti” image=”” animate=””]
Se vogliamo veramente smettere di buttare prodotti in vigna, la vera rivoluzione sarebbe di poter coltivare viti resistenti a queste malattie, almeno a quelle prevalenti (fra oidio e peronospora ci giochiamo circa l’80% dei prodotti fitosanitari utilizzati in viticoltura, naturali o meno).

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In realtà è da tempo che la ricerca lavora in questa direzione, con incroci fra viti naturalmente resistenti (viti americane o asiatiche o ibridi di queste con viti europee, non adatte a produrre vino) e varietà d’interesse produttivo. La progenie dell’incrocio viene poi studiata, in numero elevatissimo, per cercare quegli individui che mettano insieme i caratteri desiderabili dei due genitori (resistenza alle malattie + ottime caratteristiche per la vinificazione).

Vi ricordate di Mendel e degli incroci dei piselli studiati a scuola? Nel disegno è abbastanza facile, ci sono solo due geni interessati (A e B). Immaginate cosa diventerebbe questo schemino se i geni in gioco fossero molti di più.

Purtroppo i risultati finora ottenuti sono ancora limitati e gli avanzamenti sono lentissimi. Si consideri che i primi progetti sono iniziati alla fine dell’Ottocento ma solo dopo gli anni ’80 (del XX sec.) si sono ottenuti i primi incroci paragonabili alla Vitis vinifera per qualità organolettiche del vino. In generale il sistema dell’incrocio tradizionale richiede tempi molto lunghi, con probabilità di successo molto basse. Oggi ci sarebbero sistemi di miglioramento genetico più mirati (come la cisgenetica), che renderebbero questo processo molto più veloce, ma sono vietati nella ricerca europea.

Impollinazione dei fiori della vite

I sistemi di incrocio tradizionale (nella foto l’impollinazione manuale dei fiori della vite) hanno comunque creato già alcune varietà resistenti. Ad esempio la Germania, con rischi fitosanitari molto più gravi dell’Italia, ha investito molto e da lungo tempo in queste ricerche, creando già un discreto numero di varietà resistenti. Eppure il loro uso non sembra decollare più di tanto, soprattutto per problemi di marketing. Il mondo del vino moderno è legato come non mai alla varietà. I consumatori (e anche i produttori) sono restii ad abbandonare quelle attuali, ormai affermate. Ci vorrebbe un enorme salto culturale che richiederà tempo e la volontà d’impegnarsi in esso.

In Italia la ricerca è più indietro. Solo di recente sono uscite sul mercato alcune varietà interessanti, ancora da valutare nei diversi areali viticoli. Siccome la ricerca è stata finora più nordica, in realtà non ce ne sono molte adatte ai nostri climi più caldi. Alla resistenza culturale qui s’aggiunge anche la burocrazia viticola (molto forte, così come in Francia), con le problematiche d’inserire queste nuove varietà nei contesti delle indicazioni geografiche e, ancora più difficile, delle denominazioni d’origine.

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https://terraevita.edagricole.it

L’uso di queste varietà non permette comunque (al momento) di abbandonare completamente i prodotti fitosanitari, ma solo una loro riduzione (che comunque sarebbe già un buon obiettivo). Infatti alcuni incroci sono resistenti solo alla peronospora, alcuni ad oidio e peronospora insieme, ma ci sono anche le altre avversità. Infine, c’è il rischio che gli organismi patogeni sviluppino mutazioni che superino le resistenze acquisite. Per evitarlo sono comunque consigliati alcuni trattamenti per mantenere basso il livello della popolazione del patogeno e rendere meno probabile questo evento.

Tutte queste problematiche non devono comunque fare desistere da un percorso in evoluzione, che potrebbe darci le risposte più interessanti per il futuro della viticoltura. [/info_box]

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